CULTURA
Sul perché quando si è invitati non si arriva a mani vuote
Nei testi antichi dell’induismo l’ospite è considerato sacro, divino. Allo stesso modo, nella Bibbia, si invita ad aprire, sempre e con gioia, le porte della propria casa all’ospite-angelo: “Non dimenticate di ospitare volentieri chi viene da voi. Ci furono alcuni che, facendo così, senza saperlo ospitarono degli angeli” (Ebrei, 13, 2). Accogliere un ospite sarebbe, dunque, come avere Dio in casa, essendo l’ospite un suo emissario. In The Law of Hospitality, l’antropologo Julian Pitt-Rivers affermava che “la sacralità dell’ospitalità e l’onore che essa conferisce non derivano da alcuna conseguenza funzionale della credenza, ma dal fatto che l’incontro con lo straniero stabilisce il confronto tra il mondo conosciuto e quello del mistero”. Un argomento affascinante, analizzato recentemente da Francesco Spagna, docente di Antropologia culturale all’università di Padova, nel libro La buona creanza. Antropologia dell’ospitalità (Carocci editore). Partiamo dal titolo, “una provocazione – spiega Spagna -. La buona creanza la appresi da mia nonna materna. Nella sua migliore accezione, lasciare la buona creanza era il lasciare qualcosa nel piatto per educazione. Ma con quale significato? Lasciare un piatto non finito significa lasciare non concluso lo scambio dell’ospitalità. Lasciare in-finita una obbligazione… E’ un invito a riaprire l’ospitalità o a ricordarne la dimensione trascendente”.
Fai come fossi a casa tua, quante volte l’abbiamo sentito dire varcando, da invitati, l’uscio di una casa. L’ospitalità porta con sé un atteggiamento di apertura all’incontro culturale che favorisce il rapporto con l’altro e trasforma il nemico in ospite. E’ il contrario della guerra, non si abbattono porte, si aprono. L’ostaggio diviene “ostaggio di pace” e le regole della guerra vengono invertite: “Lo straniero viene accolto nella propria casa, viene fatto accomodare e viene obbligato a nutrirsi con abbondanza di cibo”.
Partendo dal presupposto che l’ospitalità è il più straordinario dispositivo educativo e sociologico che le culture hanno elaborato nei più diversi angoli del pianeta - per usare le parole dell’autore - sono proprio le storie di ospitalità a fare l’antropologia. A cui si aggiungono quelle legate al viaggio, inteso anche come metafora, “peregrinare conoscitivo, iniziazione a nuovi mondi, dimensione erratica del sapere” e, dunque, altro tema centrale dell’antropologia che, attraverso la consapevolezza dello sconfinamento, produce un’osservazione riflessiva dell’altro e delle differenti culture. “L’antropologia prosegue il viaggio antico, alla scoperta di giacimenti culturali sempre nuovi o di nuovi filoni in vecchi giacimenti. La ricerca appare inesauribile e le culture dell’altro continuano a fornire delle riserve di idee. Queste riserve di idee disegnano mondi possibili. La definizione dell’antropologia come archivio di mondi possibili si rivela particolarmente appropriata”.
“Si potrebbe fare una scala delle società e delle culture in base al grado di ospitalità. Gli eschimesi, con la loro usanza di offrire all’ospite non solo cibo e riparo, ma anche la compagnia della propria moglie, forse arriverebbero primi, seguiti dai beduini del deserto – prosegue l’autore (non senza un pizzico di ironia) - Come si piazzerebbero gli italiani in questa ipotetica classifica? Questione intrigante, perché su questo tratto culturale il nostro Paese è piuttosto diviso”. Paese che vai usanza che trovi. E, senza spingerci troppo lontano, potremmo dire: regione che vai ospitalità che trovi. Prendiamo, per esempio, Veneto e Sicilia. “All’ospitalità continentale, che avviene spesso seguendo una scansione di preannunci e preavvertimenti (Da ancò a doman no se invita gnanca el càn), si contrappone quella mediterranea. Si tratta di due sistemi di valori molto diversi”, precisa Spagna. In Veneto vige la regola non scritta del non presentarsi a mani vuote: è necessario portare qualcosa, dolci, fiori o un piccolo presente. Gesto doveroso di reciprocità simbolica. “Non si può pensare di arrivare man de sgorlòn (o man sgorlando) in Veneto. In Sicilia, invece, come in altre culture al di là del Mediterraneo, è obbligatorio presentarsi a mani vuote. Anzi, arrivare portando qualcosa potrebbe addirittura suscitare disturbo, imbarazzo e una sorta di corto circuito – spiega – Perché si rischierebbe di frapporre qualcosa tra noi e il dono dell’ospitalità che, in questo caso, non richiede alcuna reciprocità, chiede solo di avvenire, portando panza e presenza”. All’ospite è richiesto solo di fare il vuoto dentro di sé affinché venga riempito. Viene rimessa in moto la circolarità del dono. E’ un modo per aprire la relazione perché l’ospitalità incondizionata crea un circuito solidale che si basa su tre punti: io do a te perché tu possa fare lo stesso con qualcun altro.
“In Veneto troviamo un’ospitalità impoverita – continua l’autore - Forse una conseguenza della fine del mondo contadino, che non era affatto così, perché nella casa contadina quel che si chiedeva veniva sempre dato”. Al Sud incontriamo un’ospitalità incondizionata, simile a quella che possiamo trovare, per esempio, in Somalia dove il rifiuto dell’ospitalità può addirittura determinare sanzioni morali e l’esclusione dalla comunità. O in Eritrea, dove ci si priva del cibo e si riempie un piatto per un ospite invisibile (che non c’è ma che potrebbe arrivare). E ancora, dove un’usanza prevede che l’ospite venga imboccato dalla padrona di casa e che, poi, con le parti migliori del cibo offerto, a lui stesso venga dato il compito di imboccare i bambini presenti. Il più forte gesto simbolico di accoglienza e cura, un segno di profondo rispetto e condivisione dei valori dell’ospitalità.
Francesca Boccaletto