SOCIETÀ
Da Hiroshima a oggi: il rischio nucleare
Atollo Bikini: uno dei test nucleari eseguiti dagli Stati Uniti nel 1946 per misurare gli effetti degli ordigni sulle navi da guerra. Foto: Reuters/U.S. Navy/Handout via Reuters
Il commosso ricordo che si rinnova di anno in anno della distruzione atomica di Hiroshima e della strage dei suoi abitanti segna in realtà il fallimento della comunità internazionale a risolvere il problema delle armi nucleari; in 70 anni non si è riusciti non solo a eliminarle, ma neppure a definire una convenzione internazionale che ne proibisca l’uso e tanto meno a bloccarne lo sviluppo e la proliferazione.
Dal 1945 in poi hanno via via creato arsenali nucleari Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan, Sud Africa e Corea del Nord e solo il Sud Africa è ritornato sui suoi passi. E la diversificazione delle armi nucleari e il loro numero sono cresciuti fino a raggiungere quasi 70.000 armi nei primi anni Ottanta, un numero mostruoso e assolutamente privo di alcun senso politico e militare.
Le proteste di massa e il buon senso di Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov hanno portato a un processo di drastiche riduzioni nei numeri delle armi e dei loro vettori; tuttavia a tutt’oggi abbiamo ancora circa 16.000 bombe nucleari nel mondo, per il 94% fra Russia e Usa, e quello che è più preoccupante, 1.800 di queste armi sono installate nelle ogive di missili in condizione di allerta istantanea, pronti a venir lanciati nel giro di qualche minuto. Queste armi e il ruolo loro affidato dalle dottrine militari dei paesi che le posseggono costituiscono un’incombente minaccia sull’umanità. Minaccia che si sta aggravando negli ultimi anni per il gioco di molteplici fattori negativi.
Per esprimere in modo efficace l’urgenza del rischio nucleare attraverso una metafora immediatamente comprensibile a tutti, e anche ai politici, la Federation of atomic scientists ha scelto di indicare con le lancette di un orologio quanti minuti rimangano prima della mezzanotte dell’olocausto nucleare. Questi scienziati, che per primi, già dal 1945, si sono posti l’obiettivo di combattere lo sviluppo delle armi nucleari, hanno trovato uno strumento per diffondere le loro analisi e proposte nel Bulletin of atomic scientists, creato da Leo Szilard e Eugene Rabinowich. E appunto è il Bulletin che presenta in tutti i suoi numeri l’ora corrente del rischio nucleare.
La prima indicazione, siamo nel 1947, fu di mezzanotte meno sette minuti; gli Usa hanno deciso di rafforzare il monopolio delle armi nucleari, si sta accendendo la guerra fredda ed è fallito il tentativo del controllo internazionale dell’energia nucleare nell’ambito dell’apposita commissione creata dall’Onu. Nel 1949, con l’acquisizione delle armi nucleari da parte dell’Urss, la situazione di aggrava e le lancette vengono portate a 3 minuti da mezzanotte. Un ulteriore aggravamento (e siamo a meno due minuti) si ha nel 1953 con la decisione, invano contrastata da larga parte della comunità scientifica, di procedere allo sviluppo delle armi termonucleari.
Nel corso degli anni, a fronte dell’evoluzione del confronto nucleare fra le superpotenze e la proliferazione ad altri paesi, l’orologio si è allontanato e avvicinato alla mezzanotte; il momento più sicuro si è avuto nel 1991 alla fine della guerra fredda (17 minuti da mezzanotte) per poi via via aggravarsi negli anni successivi di fronte all’incapacità del mondo politico internazionale di superare il confronto e risolvere i nuovi conflitti.
Nel 2012 si ritorna a meno cinque minuti e quest’anno si sono bruciati altri due minuti, tornando a meno tre come nel 1949. Gli scienziati e studiosi hanno motivato questo aggravamento con i cambiamenti climatici non controllati, la modernizzazione globale delle armi nucleari, le dimensioni eccessive degli arsenali delle armi nucleari e il fallimento dei leader mondiali ad agire con la sollecitudine e sulla scala necessarie per proteggere i cittadini dalla potenziale catastrofe. ”L’orologio ora ticchetta a soli tre minuti da mezzanotte”, si legge nel Bulletin di gennaio 2015, “perché i leader internazionali vengono meno al loro dovere fondamentale – assicurare e preservare la salvezza e la vitalità della civiltà umana.”
Il pericolo nucleare presenta attualmente una varietà di aspetti: gli sviluppi qualitativi delle armi, la sicurezza degli enormi arsenali delle maggiori potenze, l’affidabilità dei sistemi di controllo, le situazioni critiche in aree di conflitti attivi, la prospettiva di ulteriore proliferazione, il terrorismo estremo, gli ostacoli al processo di disarmo, una scarsa attenzione dell’opinione pubblica.
La Russia e gli Usa hanno intrapreso massicci programmi di modernizzazione della loro triade nucleare, minando in questo modo i trattati esistenti sulle armi nucleari. Anche altri paesi nucleari stanno sviluppando nuovi ambiziosi progetti, per cui attualmente sono in cantiere – come minimo – 27 categorie di nuovi missili balistici, 9 missili cruise, 8 vascelli navali, 5 diversi bombardieri, 8 tipi di testate e 8 fabbriche di armi nucleari. Questi programmi minacciano di prolungare indefinitamente nel tempo l’era delle armi nucleari.
La sicurezza e il controllo delle armi delle maggiori potenze sono aumentati negli ultimi anni, ma rimane sempre la possibilità di incidenti nei frequenti movimenti di ordigni e per i loro stesso enorme numero. Occorre inoltre considerare che molti ordigni risalgono agli anni Ottanta, con tutti i problemi di degrado tecnico, ma la loro eliminazione procede in modo estremamente lento. Un'impressionante raccolta di casi di errori, malfunzionamenti e falsi allarmi successi negli Usa è stata presentata nel libro Nuclear 'Command and Control': a history of false alarms and near catastrophes di Eric Schlosser. E va tenuto presente che gli Usa sono il paese dove le regole di sicurezza sono ampiamente le più strette fra i paesi con armi nucleari.
Un costante grave pericolo sono le circa 1.800 testate mantenute in stato di brevissima allerta, con il rischio che interpretazioni errate o falsi allarmi in situazioni di crisi acute portino a decisioni irreparabili. Ricordiamo solo il falso allarme del gennaio 1995, quando ufficiali russi hanno erroneamente confuso un razzo meteorologico norvegese per un missile lanciato da un sommergibile americano. La minaccia che la Russia fosse sotto attacco nucleare percorse le gerarchie militari fino al presidente Boris Eltsin che giunse ad aprire la sua “valigia nucleare”, con pochi minuti per decidere l’opportunità di una rappresaglia in risposta; i rapporti russo-americani all’epoca erano ottimi e non vi erano ragioni per un attacco a sorpresa alla Russia e Eltsin concluse fortunatamente che i suoi radar dovevano aver sbagliato. Ma cosa potrebbe decidere Vladimir Putin di fronte a un analogo segnale, oggi che siamo in un punto di altissime tensioni fra la Russia e gli Usa su moltissime questioni con un atteggiamento di diffidenza reciproca?
Occorre considerare anche la possibilità di lanci accidentali o non autorizzati, anche se per ridurne le conseguenze i missili americani e russi sono normalmente puntati verso l’alto mare. Ma l’esplosione anche di una singola arma nucleare, sia pure in un luogo disabitato e per errore, costituirebbe un evento dirompente dei rapporti internazionali, con sviluppi difficilmente prevedibili.
Le armi nucleari in aree di crisi pongono una triplice problematica: la loro stessa esistenza aggrava i conflitti in atto, suscita diffidenza, incita al riarmo e rende difficili soluzioni pacifiche; situazioni di asimmetria di forze possono portare le parti che si sentono minacciate a sviluppare proprie armi di distruzione di massa, aggravando ulteriormente i problemi e col pericolo di azioni militari preventive da parte dell’avversario; infine rimane il rischio di un loro impiego effettivo in caso di aggravamento dei conflitti ed escalation del confronto militare.
Un esempio è il complesso dei conflitti in corso nel Medio oriente, esacerbato dalla presenza dalle armi nucleari israeliane, dal programma iraniano e degli sviluppi dell’energia nucleare in paesi arabi in prospettiva anti-iraniana, in un contesto di generale incertezza dato dalle imprevedibili intenzioni e prospettive del Daesh-ISIL. Un altro problema è la crescente tensione nell’Asia nord-orientale, dove le mire nucleari militari e i progetti missilistici della Corea del Nord hanno bloccato i tentativi di pacificazione nella penisola e danno spazio nella Corea del Sud, Giappone e Taiwan (tutti paesi con un’industria nucleare avanzata) a coloro che ritengono necessaria l’acquisizione di una difesa nucleare. Osserviamo che il Giappone ha modificato l’articolo 9 della sua costituzione rinunciando all’impegno assoluto di non belligeranza. Una nuova situazione di conflitto si ha anche nel mar cinese meridionale, dove la politica cinese di espansione trova la resistenza dei paesi locali sostenuti dagli Usa.
Rimane gravissima la situazione nell’Asia meridionale, con la presente corsa agli armamenti nucleari di India e Pakistan, paesi in perenne conflitto, con dottrine nucleari militari aggressive e piagati da un pesante terrorismo transfrontaliero. E, forse la più grave di tutte, per il diretto confronto fra Russia e Nato, il conflitto armato in Ucraina, che riportato in Europa la guerra aperta, uno spettro che sembrava allontanato per sempre. Una conseguenza a livello nucleare delle tensioni in Europa è la decisione della Nato di mantenere viva l’opzione nucleare nella sua dottrina militare, passando dal processo di riduzione delle bombe B-61 in Europa al loro ammodernamento e sviluppando un sistema antimissile balistico, considerato destabilizzante dalla Russia.
La continua importanza data dalle potenze nucleari ai loro arsenali e alla loro resistenza al disarmo è un potente incentivo alla proliferazione. Una ulteriore proliferazione di armi nucleari creerebbe tensioni locali in zone sensibili con deterioramento dei rapporti internazionali a livello mondiale e l’accensione di nuovi conflitti, con vanificazione del regime globale di non proliferazione e forti contraccolpi allo stesso ordine e istituzioni internazionali. Poiché l’elemento critico per le armi nucleari è la disponibilità di uranio altamente arricchito o plutonio, il pericolo di potenziale proliferazione viene soprattutto dagli impianti di arricchimento dell’uranio (presenti in 12 paesi) e di riprocessamento del combustibile esausto dei reattori (esistenti in 6 paesi).
Preoccupante è anche il crescente interesse per il trattamento del combustibile esausto, sia per ridurre la quantità di scorie altamente radioattive da eliminare, sia per la produzione di nuovo combustibile MOX al plutonio, col risultato della creazione di scorte di plutonio civile superiori a quelle prodotte a scopo militare. Un efficace regime di non proliferazione presuppone un reale controllo del ciclo del combustibile nucleare, possibilmente con la sua piena internazionalizzazione.
Non va infine trascurato il pericolo che armi nucleari o materiale fissile esplosivo possano finire in mano al terrorismo estremo, che, privo di prospettive politiche concrete, sembra non esitare di fronte a stragi di massa, come provato dalla setta Aum Shinrikyo e da Al Qaeda. Esiste un sostanziale accordo degli esperti che il rischio maggiore sia che un piccolo gruppo di terroristi acquisisca il necessario esplosivo nucleare (un centinaio di chilogrammi di HEU) e possa far detonare un ordigno nucleare rudimentale con la potenza della bomba di Hiroshima. Al disastro umano, sociale, economico e ambientale immediato si aggiungerebbero effetti a medio e lungo termine, con conseguenze economiche e politiche a livello globale.
Il rischio è quanto mai concreto a causa delle enormi quantità attualmente esistenti di HEU (1.390 t) e di plutonio (230 t militari e 260 t civili), non tutte debitamente protette da furti, rapine o vendite illegali.
La messa in sicurezza del materiale nucleare ha quindi la massima priorità, come si è convenuto nel Nuclear Security Summit del 2010. Siamo inoltre di fronte a una situazione di crisi del processo negoziale verso il disarmo o per forme di controllo degli armamenti nucleari. A distanza ormai di 19 anni dalla sua firma, non è ancora entrato in vigore il trattato per il bando totale dei test nucleari (Ctbt) per la mancata ratifica da parte di stati cruciali, fra cui gli stessi Usa che lo avevano proposto; la commissione per il disarmo di Ginevra dal 1994 sta discutendo un bando della produzione di materiale fissile esplosivo (Fmct), ma il negoziato è tuttora bloccato dal veto del Pakistan.
Anche il fondamentale trattato di non proliferazione (Npt) sta seguendo un percorso pericoloso con il fallimento della conferenza di revisione del 2015, dopo il successo della conferenza del 2010: insuccesso largamente dovuto all’indisponibilità delle potenze con armi nucleari a impegnarsi sulla via del disarmo, come previsto dall’articolo 6 del trattato. Nel 2010 erano state concordate 22 “azioni” da compiere da parte delle potenze nucleari entro il 2015, ma solo 5 di esse sono state, e solo in parte, realizzate. A fronte di tale inadempienza vi sono resistenze dei paesi non nucleari ad aderire a forme di controllo più incisive sulle loro attività, mentre non si è riusciti, per l’irrigidimento di Egitto e Israele, a far partire la prevista conferenza preparatoria di una zona priva di armi di distruzione di massa in Medio oriente, una condizione richiesta dai paesi arabi nel 1995 per accettare l’estensione indefinita del trattato e ribadita con determinazione nel 2010.
La presente crisi dei rapporti russo-americani sta anche bloccando ogni trattativa per il rafforzamento del trattato New Start, come inizialmente previsto dagli accordi fra Dmitrij Medvedev e Barack Obama alla firma del trattato l’8 aprile 2010. Come sembra lontano quello storico evento!
Un ruolo fondamentale nel processo di creazione e di rafforzamento del regime internazionale di controllo degli armamenti nucleari è stato giocato dall’attenzione della comunità scientifica mondiale e dalla pressione della comunità civile, concretizzata in azioni di organizzazioni pacifiste ed espressa dagli organi di comunicazione di massa: purtroppo per troppo tempo l’opinione pubblica non ha più prestato la necessaria attenzione al problema delle armi nucleari e le organizzazioni antimilitariste hanno concentrato la loro azione su altre tematiche, come le mine antiuomo e le armi a grappolo.
Per fortuna la situazione sta cambiando in questi ultimi anni e si sta rafforzando un movimento internazionale per arrivare a un bando definitivo e totale delle armi nucleari, basato su motivi umanitari, dato che l’impiego di tali armi viola i principi fondamentali del diritto umanitario individuati dalla giurisprudenza internazionale nel suo sviluppo dalla metà dell’Ottocento: il principio della necessità militare, il principio di distinzione, il principio di proporzionalità e il principio di umanità. Su questa linea vi sono state delle conferenze internazionali a Oslo (marzo 2013) a Nayarit (Messico, febbraio 2014) e a Vienna (dicembre 2014), che ha visto la partecipazione di 158 stati, varie organizzazioni internazionali, scienziati e organizzazioni non governative.
Venuto a conoscenza del bombardamento atomico di Hiroshima, Albert Einstein disse: “La prima bomba atomica ha distrutto ben più che la città di Hiroshima. Ha fatto esplodere le nostre superate idee politiche, quali le abbiamo ereditate. Come abbiamo cambiato il nostro modo di pensare nel mondo della scienza pura per abbracciare concetti più nuovi ed utili, così dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare nel mondo della politica. È troppo tardi per commettere errori”.
Poiché i governanti mondiali non hanno saputo affrontare nel necessario nuovo modo il problema della sicurezza dei popoli e i rapporti internazionali rinunciando alla pura potenza militare, solo un grande e determinato movimento mondiale di cittadini può oggi essere decisivo per attualizzare finalmente l’obiettivo di “un mondo libero dalle armi nucleari”.
Alessandro Pascolini