SCIENZA E RICERCA
Liscia, con le bolle o con i pesticidi?
Foto: Alessandro Tosatto/contrasto
Sulle nostre tavole non manca mai (o quasi). In bottiglia o di rubinetto. Noi siamo quella parte della popolazione mondiale che può permettersi di scegliere. In molti Paesi non è così. Malattie come il colera o il tifo vengono trasmesse attraverso le acque contaminate. Nel 2011, secondo un documento dell’Organizzazione mondiale della sanità Water Quality and Health Strategy 2013-2020, il colera è presente in 58 Paesi per un totale di quasi 590.000 casi e un aumento dell’85% rispetto al 2010. Milioni di persone sono esposte a livelli pericolosi di inquinanti biologici e chimici presenti nell’acqua potabile per una gestione inadeguata delle acque reflue urbane, industriali o agricole. Senza contare i contaminanti provenienti da fonti naturali, come l’arsenico presente a livelli elevati nelle acque sotterranee di molti Paesi tra cui l’Argentina, la Cina, l’India o gli Stati Uniti. Per queste ragioni diventa fondamentale, secondo l’Oms, rafforzare le capacità degli Stati di gestire efficacemente la qualità delle acque, innanzitutto per proteggere la salute pubblica. In questo contesto, pur partendo da una situazione certamente meno critica di altri Paesi, si muove anche l’Italia proponendo nuovi piani di sicurezza delle acque destinate al consumo umano.
Oggi la normativa di tutela delle acque potabili, sviluppata a livello europeo, prevede requisiti minimi di salubrità e qualità dal punto di vista chimico, fisico, radiologico e microbiologico. Per ogni sostanza nota, secondo il criterio di massima precauzione possibile, vengono stabiliti dei limiti di concentrazione massima che dovrebbero evitare qualsiasi tipo di rischio per il consumatore, calcolando una media di due litri e mezzo di acqua al giorno per tutta la vita. Le criticità tuttavia non mancano. Gli attuali sistemi di controllo infatti si basano sulla verifica di conformità del prodotto finito, cioè su criteri di tipo retrospettivo. Il monitoraggio viene eseguito sulle acque distribuite rispetto a un numero definito di parametri previsti. Sebbene in Italia la qualità dell’acqua destinata al consumo umano sia garantita da una prassi rigorosa e ormai consolidata e dalle buone risorse di origine (acque sotterranee naturalmente protette in più dell’85% dei casi), esistono dei limiti nel sistema. I monitoraggi, ad esempio, sebbene frequenti, risultano essere comunque inferiori a quanto richiederebbe l’estensione della distribuzione idrica. E i parametri considerati non sono sufficientemente rappresentati se si confrontano con i potenziali agenti chimici, fisici, radiologici e biologici che potrebbero inquinare le acque per effetto di contaminazioni delle risorse di origine.
Esistono ad esempio inquinanti ormai noti come i pesticidi, i policlorobifenili, i batteri o i virus che vengono ampiamente considerati nelle analisi delle acque. “Tuttavia si deve considerare – sottolinea Sara Bogialli, docente del dipartimento di Scienze chimiche dell’università di Padova – che nel corso degli anni alcune di queste sostanze sono soggette a degradazione e non è ancora noto se i loro prodotti siano ugualmente tossici”. Si aggiungano poi gli inquinanti emergenti, sostanze che in molti casi possono essere analizzate in modo accurato senza tuttavia essere ancora in grado di stabilire se la concentrazione rilevata nelle acque abbia un effetto nocivo o meno. Ragion per cui non sono comprese negli attuali sistemi di monitoraggio. Tra queste le sostanze perfluorurate (utilizzate ad esempio come emulsionanti in prodotti per la pulizia di tappeti, pelle o nei pesticidi) scarsamente degradabili, il cui potenziale tossico è stato in parte accertato. Ma anche prodotti farmaceutici di largo consumo che vengono metabolizzati dal corpo, si riversano nella acque reflue e in parte continuano a rimanere nell’ambiente. Sono considerati inquinanti emergenti anche sostanze naturali, come alcuni tipi di alghe che producono tossine e dunque vanno monitorate.
A fronte di questa situazione, ora si cerca di giocare d’anticipo. Si punta alla prevenzione e gestione dei rischi di contaminazione delle acque nell’intera filiera idrica, più che al controllo retrospettivo delle stesse. Il modello, noto come Water Safety Plan (Piani di sicurezza dell’acqua), è stato introdotto dall’Organizzazione mondiale della sanità come lo strumento più efficace per garantire la sicurezza delle acque potabili ed è già stato ripreso da diversi Paesi europei come l’Irlanda, il Portogallo, il Regno Unito e la Germania. Nonostante non si tratti ancora di un obbligo legislativo, anche l’Istituto superiore di sanità e il Ministero dell’ambiente in Italia si stanno muovendo in questa direzione attraverso la presentazione di questo nuovo tipo di approccio integrato e la formazione di tutti gli attori coinvolti, dagli operatori del servizio idrico alle autorità sanitarie e ambientali. Ne è esempio l’incontro padovano su Screening delle acque destinate al consumo umano. “Si tratta di un processo lungo a livello legislativo – sottolinea Sara Bogialli – tuttavia esistono già i mezzi tecnici per cominciare a prendere in considerazione una gestione della filiera, dalla captazione al consumatore, che riesca a dare un quadro di protezione molto più completo di quello attualmente in uso”. Secondo quanto stabilito dalle recenti Linee guida per la validazione e gestione del rischio nella filiera delle acque destinate al consumo umano secondo il modello dei Water Safety Plan, ciò significa innanzitutto “fotografare” l’intero sistema idropotabile in termini di infrastrutture, risorse e processi; individuare eventuali pericoli di tipo biologico, chimico, radiologico o fisico che possono causare danni alla salute (ad esempio la contaminazione da antiparassitari o fertilizzanti in caso di attività agricole vicino alla risorsa idrica) o situazioni che possono portare all’insorgere di un pericolo (attività estrattive o industriali). Sulla base di queste rilevazioni, si dovranno poi valutare i possibili rischi di contaminazione e mettere in atto azioni di controllo e gestione del rischio stesso.
“L’agricoltura – spiega Sara Bogialli approfondendo l’argomento – può essere considerata una delle principali fonti di contaminazione delle acque potabili (si pensi al largo uso dei pesticidi), sebbene le concentrazioni dei contaminanti nella maggioranza dei campioni siano inferiori al limite considerato pericoloso”. Si ricorderà negli anni Ottanta il caso dell’atrazina, un erbicida usato in agricoltura. La soglia massima consentita nelle acque potabili in Italia venne alzata rispetto a quanto stabilito dalla legge, tanto da far intervenire la Corte di Giustizia europea. “Oggi i limiti consentiti per l’atrazina sono quelli stabiliti dall’Unione europea. Va detto, tuttavia, che le valutazioni tossicologiche hanno fattori di tolleranza per il rischio molto elevati, con dei limiti molto più cautelativi rispetto al rischio concreto”.
E conclude sottolineando che la conoscenza dell’invaso permette di attivare dei piani di monitoraggio e questi, a loro volta, consentono di predisporre interventi di emergenza in caso di contaminazioni.
Monica Panetto