Veduta della galleria del museo Bailo con alcune opere di Martini. Foto: Marzio De Santis
Nel lungo percorso della storia della scultura in Italia, Treviso e la Marca trevigiana rappresentano un caso unico, quasi irripetibile, di territorio fecondo di modernità e innovazione artistica. Una urbs sculpta che ha visto nascere i talenti più importanti di questa rivoluzione della scultura: Antonio Canova e, naturalmente, Arturo Martini, artista fra i più geniali e innovativi del Novecento.
Lontani nel tempo, eppure caratterizzati entrambi dalla doppia elica del DNA della modernità espressiva, sono stati promotori di nuovi indirizzi di ricerca, raffinati interpreti di slanci romantici controcorrente, artisti “liberi”, rappresentanti di una modernità che ha preso le mosse dall’antico, dalla tradizione, per emanciparsi, reagire ai suoi principi.
È perciò Treviso, capoluogo del rinnovamento della scultura contemporanea (e non solo), a ospitare l’esposizione probabilmente più ampia e completa mai dedicata ad Arturo Martini. I capolavori (31 marzo-30 luglio 2023) a cura di Fabrizio Malachin e Nico Stringa. Una mostra che rappresenta la terza tappa di un cammino iniziato la scorsa primavera con Canova gloria trevigiana. Dalla bellezza classica all’annuncio romantico, e che, dopo la recente esposizione delle opere di Antonio Carlini, maestro di Martini e raffinato trait d’union fra i capolavori di Canova e quelli dell’allievo, si conclude con quest’ultima grande rassegna martiniana.
La mostra, che intende “muoversi attorno” alla scultura e non seguire una rigida periodizzazione, è organizzata (come sottolinea il titolo) con un focus particolare sui capolavori, sulle opere più rappresentative della creatività di Martini. L’artista – spiega Nico Stringa – lungi dall’essere “eclettico”, indaga i temi, quelli che ritiene centrali per la sua espressività, e li ripropone anche a distanza di molti anni con mutata sensibilità, poesia, soluzione formale. Nella lunga sala d’ingresso della mostra, ad esempio, il Figliuol prodigo (il grande bronzo del ’27 di Acqui Terme) domina, impressiona e si confronta con le due versioni successive; e così accade anche nella sala accanto nelle varie redazioni del Tobiolo o del Pescatore.
Nella prima sezione della mostra va in scena la formazione dell’artista. La materia è malleabile, ricettiva alla lezione dei primi maestri: Giorgio Martini (padre del noto incisore e illustratore opitergino, Alberto), e il citato Carlini. In questa sezione, che in realtà è parte preziosa dell’allestimento permanente del museo, le luci sono puntate sul suo tirocinio creativo: opere all’insegna della bellezza dell’invenzione, dell’uso dei materiali, della freschezza delle forme espressive.
L’artista approda poi verso le prime committenze, le prime collaborazioni, le prime esposizioni; lo stile guarda ai grandi della scultura come Bistolfi, Troubetzkoy, naturalmente Rodin, sino agli “scherzi di luce” di Medardo Rosso. Seguono anche i primi viaggi a Milano e a Venezia, dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti, quindi l’aggiornamento europeo nelle grandi capitali dell’arte, a Monaco di Baviera prima, a Parigi poi, dove si reca assieme al suo più grande amico, anch’egli fuoriclasse di modernità, Gino Rossi.
Cuore dell’esposizione è però la produzione matura di Martini, assente dai progetti espositivi di Treviso dal lontano 1967. La prima maturità, che inizia nel primo dopoguerra, coincide col suo ritorno a Treviso, il trasferimento a Milano e infine, in pianta stabile, a Vado Ligure. È la stagione del ritorno all’ordine, di “Valori plastici”, di una nuova monumentalità della scultura: ecco in mostra la splendida pietra “neoclassica” di Leda con cigno (1926-1929) già esposta alla prima mostra del Novecento Italiano; il citato bronzo, colmo di “pathos”, del Figliuol prodigo e la grande terracotta Il bevitore (1928), per citare solo alcune opere.
La letteratura è, per Martini, una sorgente dalla quale abbeverarsi e, subito dopo l’ispirazione, scostarsi, come nella “notturna” Pisana di Treviso (1928-1929), celebre nudo che ha conosciuto non poche variazioni sul tema (lasciate spesso allo stadio di lirico “non finito”), e che in sala si contrappone alla solare, nel senso anche di “felice”, Donna al sole (1930).
Un altro tema ricorrente nella poetica martiniana è quello della finestra. Un perimetro chiuso dal quale s’affaccia una donna, un volto; si percepisce una sensazione di “attesa” (di nuovo notturna) che il trevigiano traduce magistralmente negli anni con la grafica, la terracotta refrattaria. In mostra il tema si sviluppa e si trasforma sino all’approdo più rivoluzionario, La veglia (1931-1932), vero “capolavoro della scultura europea degli anni ‘30” dove l’artista giunge a “modellare uno spazio che non c’è”, a “scolpire lo spazio” (Stringa). Una terracotta di oltre due metri che offre, dallo spazio reale della sala, passando per la scatola prospettica della stanza scolpita, sino allo spazio ridottissimo della finestra, una “nuova” prospettiva alla scultura contemporanea.
Non si può non fare cenno alla splendida Chimera (dei musei di Udine e che, a proposito della città friulana, così bene si confronterebbe con le successive sculture di Mirko Basaldella, e assieme ad esse al prototipo antico del museo archeologico di Firenze), d’ispirazione etrusca, esposta assieme ai due Leoni di Monterosso (1934), potenti animali messi a guardia all’entrata dell’esposizione.
Ai marmi “assoluti” dell’ultima stagione di Martini come Donna che nuota sott’acqua, una pietra che s’inabissa trascinando con sé “non solo il suo capolavoro ma anche tutta scultura dell’epoca” (Stringa, catalogo della mostra, p. 47), così “grave” e poetica da far sospettare un prelievo di Giorgio Caproni nell’Idrometra, l’artista contrappone la materia che avvolge lo spazio, il vuoto, come un’aureola, di Atmosfera di una testa.
Una modernità e una riflessione sulla contemporaneità che può farci rivedere con occhi particolari, più consapevoli, i prodigiosi Martini custoditi dall’Università di Padova: quel possente lettore, inginocchiato, del Tito Livio dell’atrio di Palazzo Liviano (dal cui marmo è stata ricavata la donna inabissata), e il magnifico Palinuro (1946) custodito presso Palazzo del Bo.
La scultura del Palinuro all'interno dell'Università di Padova