Siamo fatti di elettricità: il nostro cervello funziona grazie a connessioni di natura elettrica, ed è grazie a loro che sentiamo il mondo, ci muoviamo, comunichiamo, e, in definitiva e semplicemente, “siamo”. Però è tutto molto complesso di così e allora può essere utile un libro. Simone Rossi è professore di neurofisiologia all’università di Siena e ha scritto per i tipi di Raffaello Cortina il primo libro divulgativo in italiano sulla cosiddetta neuromodulazione, cioè l'interazione con l'attività elettrica del cervello attraverso (deboli!) correnti somministrate da fuori. Incontrarlo è l’occasione per capire di che cosa si tratta.
La neuromodulazione, ha una lunga storia: da Ugo Cerletti e Lucio Bini, che negli anni Trenta del Novecento svilupparono e introdussero in psichiatria l’elettroshock, alle sperimentazioni che conduci anche tu, oggi. Per te, però, questa è una storia non solo scientifica ma anche personale, perché hai visto tua madre curata con gli elettroshock. Come sono cambiate le cose da allora, e perché scrivere un libro per raccontarlo al grande pubblico?
Fortunatamente le cose sono cambiate tanto, soprattutto in termini di precisione, ammesso che l’elettroshock di allora - si parla della metà degli anni sessanta - avesse davvero a che fare con il concetto moderno di neuromodulazione. Diciamo che, invece di andare in analisi per capire se quello che faccio di lavoro abbia radici nella mia infanzia o dipenda dal caso, ho scritto il libro: terapeutico lo stesso, meno impegnativo economicamente, molto più divertente! Perché è un piacere immenso generare interesse e curiosità negli altri, a proposito del proprio lavoro.
Considera che la neuromodulazione è ancora una cosa sconosciuta ai più, inclusi molti neurologi e psichiatri addetti ai lavori, nonostante agisca sulle stesse sinapsi dei farmaci. E poi credo sia necessario cominciare a mettere alcuni paletti: che cosa è oggi la neuromodulazione, perché può essere utile, come si sta evolvendo, come può essere domani, da che cosa si deve prendere le distanze. È l’ora di parlarne.
Ecco, tu parli di malattie del cervello da neurologo: hai un approccio che qualcuno definirebbe riduzionista perché basato su modelli di cervello e spiegazioni meccaniche e chimiche, individui aree e funzioni, e dai terapie basate su farmaci. Insomma: sei un medico! E sei convinto che lo studio dell'attività elettrica del cervello ci dirà molto anche sulle malattie della psiche, e persino sui comportamenti. Come credi che avverrà, e come credi che dovranno cambiare la medicina e la psicologia? E non hai paura dei richiami alla vecchia medicina empirica, quella delle lobotomie fatte un po' così, sulla scia del Premio Nobel a Antonio Egas Moniz?
Si, confesso: sono un medico. Ma riduzionista fino ad un certo punto, direi. Oggi nel mio ambito si ragiona in termini di network più che di aree, di connessioni più che di funzioni localizzate. La sfida è capire perché una stimolazione x influenzi anche y e z, e fino a che punto, e se queste influenze siano prevedibili o no.
A proposito di futuro: vedi che anche tu nella domanda metti insieme medicina e psicologia. I nostri network cerebrali generano comportamenti e, quando qualcosa è sbagliato in queste connessioni elettro-chimiche, sintomi e malattie. Mi sembra che siamo tutti d’accordo sul fatto origini tutto “da lì”, senza bisogno di essere incasellati fra i riduzionisti della prima ora o di quelli successivi.
Ci penserò… Di certo il tuo ambito di ricerca è caratterizzato da una importante multidisciplinarietà. Per fare una ricerca di quelle che descrivi nel tuo libro ci vogliono molte teste che sanno fare molte cose diverse. Ci racconti un esempio di esperimento in cui hai dovuto collaborare con esperti di cose di cui non sapevi niente? Ed è una novità, anche questa, per un ricercatore in neurologia?
Di episodi potrei raccontartene mille, ma scelgo questo: una quindicina di anni fa ci incontrammo con un ingegnere robotico, Domenico Prattichizzo, che mi chiese di studiare insieme i meccanismi neurali delle “interfacce aptiche”. Ovviamente dissi di si, pur non avendo nessuna idea di che cosa fossero. Mentre mi squillava il cellulare, che vibrava anche, Domenico mi disse: “Vedi, questa è un’interfaccia aptica”.
Di lì a poco brevettammo delle cavigliere vibranti “a comando” che sono utili ai pazienti parkinsoniani che camminano male o che addirittura si bloccano sul posto, senza riuscire a muovere i piedi. Una specie di riattivatore dei circuiti fisiologici del cammino. Il bello è che questi circuiti erano quasi sconosciuti a Domenico. Cioè: dall’unione delle nostre ignoranze era nata una cosa utile, e anche sofisticata sia tecnologicamente che da un punto di vista fisiologico. Si chiama “contaminazione”, ma non ha niente a che vedere con i virus.
Torniamo alla neuromodulazione. Quali sono le malattie per cui vedi un futuro per la neuromodulazione?
Beh, per prima cosa distinguiamo le tecniche invasive (per cui si posizionano elettrodi dentro il cervello connessi ad un generatore di impulsi, tipo un pacemaker per il cuore) e quelle non invasive. Tra le prime ce ne sono alcune già in uso, come la stimolazione cerebrale profonda che già si usa in (alcuni) pazienti con la malattia di Parkinson a uno stadio avanzato, nei tremori e nelle distonie farmacoresistenti, in alcune epilessie, in alcuni disturbi psichiatrici e nelle emicranie. La si sta studiando anche per la malattia di Alzheimer.
Mentre le seconde hanno dimostrato di funzionare per la depressione resistente ai farmaci, il disturbo ossessivo compulsivo, il dolore neuropatico cronico e per il recupero della funzionalità della mano dopo un ictus. Probabilmente funzionano anche in molte altre condizioni neurologiche e psichiatriche, e non solo: la fibromialgia, la spasticità in corso di sclerosi multipla, i disturbi del linguaggio conseguenti a un danno vascolare. Insomma, condizioni molto diverse. Per le dipendenze, invece, al momento non ci sono dati sufficienti in studi controllati, ma non significa che non ci si stia lavorando.
In generale, credo che arriveranno presto miglioramenti tecnologici tali da consentire una maggiore precisione nella stimolazione, quindi anche con meno effetti collaterali. E, secondo me, potrebbero arrivare da qui anche nuove possibilità per la terapia di alcuni tumori della corteccia cerebrale.
E niente sull’invecchiamento? Tu, per esempio, non hai avuto la tentazione di usarlo su di te per restare “giovane”?
Io vado al lavoro in bicicletta, faccio un po’ di sport, bevo vino solo di ottima qualità, mangio poca carne e tante verdure, e ultimamente ho scritto un libro, che è cosa molto differente dallo scrivere noiosi articoli scientifici o relazioni cliniche. In questo modo spero di attivare tutti i circuiti necessari per fronteggiare decentemente lo scorrere degli anni. Ma il concetto di “forever young” non mi piace e, soprattutto, non è veritiero: ogni età ha i suoi lati positivi, almeno per ora.
Te lo chiedevo per provocarti… Perché intorno alla neuromodulazione c’è già un gran marketing “grigio”. E forse si discute poco delle questioni etiche. Per esempio: che cosa penseresti di un sistema di neuromodulazione proposto ai tuoi studenti come sistema per fare meno fatica a superare gli esami, in particolare quello di neurologia?
Troppo facile, e nemmeno utile! Perché meno tempo si studia, meno si consolida la traccia del sapere. E comunque l’esame di neurologia con me è impossibile da superare, perché insegno fisiologia!