CULTURA

Chimica e arte, la più riuscita delle alchimie

“È un incolore liquido,/d'odor molto pungente,/solubile e miscibile/con l'acqua facilmente./Per ottenerlo, i chimici,/in epoche più antiche,/crudeli, distillavano/le povere formiche”. Chi immaginerebbe che la descrizione dell’acido formico possa essere divertente? Eppure Alberto Cavaliere, giornalista e politico di formazione scientifica, scrisse alla fine degli anni Venti un trattato di “Chimica in versi” che è tuttora uno dei più brillanti esempi nella divulgazione di una disciplina spesso ritenuta oscura. Non è un caso: che la chimica si intrecci di continuo, nei secoli, con le più varie forme d’arte è la tesi di Vincenzo Schettino, professore emerito dell’università di Firenze. Il suo Scienza e arte (Firenze University Press, 2014), uno dei cinque volumi finalisti del Premio letterario Galileo presentati a Padova, è una panoramica sulle connessioni, ora note ora insospettabili, tra chimica, poesia, architettura, teatro, pittura, narrativa. Una prova, per l’autore, del più generale compenetrarsi di arte e sapere scientifico, mondi nient’affatto discordi o incompatibili.

Perché un chimico sceglie di scrivere di poesia e architettura?

Normalmente i ruoli sono opposti, perché sono i letterati e i filosofi della scienza che amano indagare sugli intrecci tra arte e discipline scientifiche. Io ho voluto esplorare questo tema dal punto di vista dello scienziato. Del resto sono campi destinati a incontrarsi: gli artisti riconoscono spesso che la loro opera è frutto di ricerca, mentre gli scienziati rivendicano il ruolo dell’immaginazione e dell’intuizione nel loro lavoro.

Nel libro lei cita molti scrittori che usano la narrazione per trattare di chimica, come Primo Levi o Raymond Queneau. È, il loro, un antidoto efficace a un linguaggio tecnico poco comprensibile al grande pubblico?

La chimica, di solito, fa paura. È percepita dai non specialisti come ostica e sconosciuta. E quindi è importante saperne parlare usando registri diversi, narrativi o almeno semplificati. Non è una velleità: anche i concetti più complessi possono essere illustrati in modo semplice. Negli Stati Uniti molti corsi di chimica affiancano al docente “tecnico” un letterato, che insegna agli allievi come trasporre quei concetti in un linguaggio piano, o addirittura in poesia. È l’antica tradizione anglosassone, quella della Royal Society. Rendere una scienza piacevole e divertente non è reputato, come a volte accade in differenti contesti culturali, disdicevole. 

Ma è così necessario che la chimica diventi patrimonio di un pubblico di non addetti ai lavori?

Vede, ai nostri giorni stiamo assistendo a un paradosso. L’uomo ha sviluppato la tecnologia per sfuggire all’ignoranza e alla superstizione. Oggi siamo circondati da dispositivi sofisticati, però nessuno ha la minima idea dei loro meccanismi di funzionamento: uso il mio smartphone di continuo, ma ignoro totalmente com’è fatto. Così si ritorna a un rapporto con gli oggetti che ha quasi caratteri magici. La chimica serve anche a questo, a essere coscienti degli strumenti che utilizziamo.

Qual è l’immagine che della chimica ha la maggioranza delle persone?

Quella di una disciplina ancora troppo lontana, complicata. L’unico vero salto nella consapevolezza di quanto la chimica sia essenziale per ognuno di noi si è avuto negli anni Cinquanta, con lo sviluppo della coscienza ecologica e delle scienze ambientali e quindi, parallelamente, della necessità di un’etica della chimica. Per il resto, la materia è ancora troppo poco familiare. Sono quindi fondamentali iniziative come quella del 2011, l’anno internazionale della chimica, o tutti gli eventi divulgativi che aprono i laboratori degli atenei ai ragazzi. Direi che tutto sommato, in Italia, l’azione divulgativa che funziona meglio è proprio quella rivolta ai giovanissimi, perché la chimica viene presentata anche in modo spettacolare, stupefacente.

Dopo “Scienza e arte” ha in mente altri progetti divulgativi?

Sto lavorando a un nuovo libro, un’antologia di poesie italiane e straniere che hanno per oggetto la chimica. Spero di riuscire a pubblicarlo la prossima estate.

In conclusione, in Italia a che punto siamo nella divulgazione scientifica?

Ci sono iniziative interessanti, ma in generale siamo indietro. Vi sono ambienti in cui è ancora diffusa una mentalità un po’ snob, secondo la quale ampliare la propria platea, e quindi ammorbidire il linguaggio, equivale a svilire la propria autorevolezza. Io invece mi chiedo se è utile che i miei studi contemplino soltanto articoli rigorosissimi che nessuno, al di fuori dei miei colleghi, potrebbe capire. Vorrei ricordare che il più grande divulgatore scientifico della storia è stato Galileo Galilei. E non mi sembra esattamente una figura che difetti di autorevolezza.

Martino Periti

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012