SCIENZA E RICERCA
Crisi climatica: scienza e politica cooperino, sulla scia del Protocollo di Montréal
Dalla firma del Protocollo di Montréal, nel 1987, le emissioni di CFC (clorofluorocarburi) sono costantemente diminuite. In quell’occasione, si è per la prima volta realizzata una fruttuosa cooperazione internazionale: è stato, infatti, il primo trattato sottoscritto universalmente da tutti i Paesi, e ogni anno, dal 1989, la Conference of Parties dell’ONU si riunisce per monitorare la corretta applicazione del protocollo e per apportare gli emendamenti coerenti con le nuove scoperte scientifiche. Come sottolinea un recente editoriale di Nature, tuttavia, è necessario che, da un lato, non si abbassi la guardia, e che, dall’altro, si miri a replicare questo modello virtuoso anche per contrastare il cambiamento climatico.
Il Protocollo di Montréal si tratta di un felice (ancorché isolato) esempio di collaborazione tra la politica e la scienza. I CFC sono una famiglia di composti chimici inventati nei primi anni ’30 del Novecento dall’ingegnere chimico statunitense Thomas Midgley, e abbondantemente utilizzati, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia come agenti refrigeranti per molti apparecchi di uso comune – non ultimi, frigoriferi e condizionatori –, sia all’interno di materie plastiche e come propellenti.
A causa della loro elevata stabilità, queste sostanze cominciarono, fin dagli anni ’60, ad accumularsi nell’atmosfera. Giunti nella stratosfera, i CFC, i cui atomi contengono cloro e fluoro, vengono in contatto con i raggi UV del sole e si scompongono; il cloro residuo dà origine a cicli di reazione che scompongono le molecole di ozono, fondamentali nel proteggere la Terra proprio dai raggi ultravioletti del Sole.
Questo meccanismo rimase sconosciuto fino agli anni ’70: solo nel 1974 pervennero, infatti, le prime evidenze scientifiche dell’impatto nocivo che i CFC esercitavano sull’ozonosfera. Le implicazioni per la salute umana erano gravi, e molto preoccupanti: l’assottigliamento della “pellicola” protettiva di ozono esponeva, infatti, a un tasso troppo elevato di raggi ultravioletti, responsabili di patologie come il cancro della pelle e svariate malattie dell’occhio.
Di fronte ad un rischio così immediato per la salute, a cui era potenzialmente esposta l’intera popolazione globale, la comunità internazionale oppose una reazione tempestiva, mettendo a punto in pochi anni una strategia condivisa i cui termini vennero delineati prima nella “Convenzione di Vienna per la protezione dello strato di ozono” (1985) e poi nel più famoso Protocollo di Montréal, firmato il 16 settembre 1987 ed entrato in vigore nel gennaio 1989. Grazie a quel provvedimento, che metteva al bando i CFC (insieme ad altre cento sostanze considerate dannose per lo strato di ozono) impedendone sia l’uso che la produzione, la “salute” dell’ozonosfera è andata lentamente migliorando. Dal 1990 ad oggi, infatti, l’emissione di sostanze dannose per l’ozono (ODS, Ozone Depleting Substances) è diminuita del 98%: ciò ha rappresentato anche un contributo essenziale al contenimento del fenomeno del riscaldamento globale, che sarebbe aumentato esponenzialmente (ancor più di come sta avvenendo) se gli Stati non avessero provveduto a porre sotto controllo gli ODS, che sono anche dei potenti gas serra.
La progressione dell'assottigliamento e del recupero dello strato di ozono sull'Antartide. Elaborazione: NASA
Nonostante questo, la strada da percorrere è ancora molto lunga: in sostituzione di CFC e simili sono stati impiegati sempre più massicciamente composti chimici come gli idrofluorocarburi (HFC), che hanno un potere climalterante molto più elevato rispetto all’anidride carbonica, e che quindi costituiscono un serio ostacolo per la riduzione del riscaldamento globale. Inoltre, un recente studio mostra come vi siano ancora “serbatoi” che rilasciano sostanze nocive come CFC-11 e CFC-12 in quantità tali che, secondo le proiezioni, in sei anni potrebbero ammontare a 9 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente. Come sottolinea il succitato editoriale di Nature, dunque, la sfida è ancora aperta: il Protocollo di Montréal è fondamentale, sia dal punto di vista pratico sia come modello per l’azione politica, ma non costituisce ancora una misura sufficiente.
Nel far fronte al cambiamento climatico, le nazioni e i grandi portatori d’interesse devono trovare una formula d’intesa che permetta di armonizzare gli interessi immediati con la tutela a lungo termine del benessere collettivo, fino a considerare l’ambiente e la salute come beni in sé, primari inalienabili.