CULTURA

Pioniere che sfidano i pregiudizi: il lungo cammino verso la parità in medicina

Abbiamo parlato varie volte di quanto la parità di genere sia troppo spesso un interesse di facciata, qualcosa che molti auspicano ma che pochi si impegnano a perseguire in prima persona. Le rivendicazioni sono importanti, e fino al raggiungimento della completa parità in ogni settore non bisogna mollare il colpo. Ogni tanto però forse dovremmo fermarci per ricordare quanto è già stato fatto, se non altro per rilevare retrospettivamente che quello che un tempo era impossibile è diventato possibile grazie a persone che non si sono fermate al primo ostacolo, e neanche al secondo o al terzo. Persone che, al netto della situazione attuale, meritano di essere celebrate.

Il difficile accesso delle donne alla carriera medica

Nel XIX secolo, per esempio, l’idea che una donna potesse diventare medico era quasi più assurda che credere agli unicorni, per una serie di ragioni culturali, sociali e biologiche, molte delle quali derivavano da pregiudizi radicati e da una società fortemente patriarcale. Le donne erano confinate a ruoli considerati "naturali," come quello di madri o, se proprio volevano impegnarsi in quel campo, infermiere. La professione medica, con le sue richieste di forza fisica e mentale, era percepita come incompatibile con la delicatezza femminile. Olivia Campbell, giornalista e scrittrice appassionata di storia sociale, ha scritto un libro sulla storia delle donne in medicina in America e Regno Unito, Le ragazze in camice bianco (Aboca, 2023), per raccontare le storie di Sophia Jex-Blake, Elizabeth Blackwell, Lizzie Garrett Anderson e altre pioniere che nel mondo anglosassone aprirono la strada a tutte quelle donne (e non erano poche) che volevano diventare mediche, nonostante le resistenze di docenti e futuri colleghi, da cui venivano prima ignorate, e poi deliberatamente ostacolate.

In quegli anni, infatti, la medicina era considerata una professione eminentemente maschile, un bastione del sapere riservato agli uomini. Non che non fossero mai esistite mediche de facto (Artemisia, Agnodice, Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen, giusto per citarne alcune), ma un conto è esercitare l’arte della medicina, e un conto è essere titolate per farlo tramite una laurea. Dal punto di vista burocratico le donne dell’epoca, quando andava bene, erano relegate al ruolo di infermiere o ostetriche, posizioni considerate naturali perché legate alla cura e alla maternità. In questo contesto, una donna che osava aspirare a diventare medica era vista con sospetto, se non apertamente derisa.

Anche le riviste scientifiche remavano contro

Per comprendere il quadro generale, basta vedere come una rivista autorevole come The Lancet fu tra le più feroci oppositrici delle donne in medicina. Pubblicò articoli che deridevano apertamente le pioniere come Sophia Jex-Blake, accusandole di protagonismo e di perseguire una “crociata di cattivo gusto” per ottenere visibilità e si fece portavoce di una visione profondamente patriarcale, sostenendo che le donne fossero biologicamente inadatte alla medicina, perché mancavano di freddezza, nervi saldi e stabilità emotiva per una professione di quel tipo (ma almeno non menzionarono un altro cavallo di battaglia dei medici di allora, secondo cui le donne non avrebbero retto alla vista del sangue: forse alle lezioni di anatomia non erano stati attenti).

Una signora si è insinuata nel cuore del nostro sistema ospedaliero. Come dovremmo accogliere questa graziosa intrusa? Dovremo darle il benvenuto come si fa con una signora in ogni altra circostanza o dovremo resistere a questa avanzata di ombrellini? The Lancet

La conclusione non lasciava spazio a dubbi: “Ciò che ci aspettiamo è una condanna pressoché unanime del tentativo di ammettere le giovani signore tra le fila degli studenti di medicina dei nostri ospedali”. E, ancora, sempre The Lancet, a proposito della prima laureata in medicina del Regno Unito: “senz’altro gli esaminatori avranno avuto riguardo del suo sesso, omettendo quegli argomenti che, benché indispensabili per la pratica medica, potrebbero impressionare una mente femminile”. Questi attacchi riflettevano una visione più ampia, in cui l'indipendenza femminile era vista come una minaccia alla struttura sociale tradizionale, e dimostrano quanto fosse difficile per le pioniere della medicina guadagnare rispetto in un mondo dominato da uomini.

Elizabeth Blackwell, prima donna laureata in medicina

La Rivoluzione Industriale aveva portato enormi cambiamenti sociali ed economici, ma le opportunità educative per le donne restavano limitate. In Europa, le università erano ancora precluse al genere femminile, ma anche negli Stati Uniti la situazione non era diversa: la prima donna a laurearsi in medicina, Elizabeth Blackwell, fu ammessa al Geneva Medical College solo perché i suoi colleghi uomini credevano che la sua richiesta fosse uno scherzo. La vocazione di Blackwell diventò palese quando una cara amica vicina alla morte le confidò il disagio di essere curata da uomini insensibili, e fu questo episodio a spingerla a tentare l’impossibile: Elizabeth non si lasciò scoraggiare e dopo varie peripezie riuscì a laurearsi nel 1849.

Nonostante il titolo, però, la strada professionale era tutt’altro che spianata. Le porte degli ospedali per lei rimasero chiuse, costringendola a trasferirsi in Europa per perfezionarsi in ostetricia. Tornata negli Stati Uniti, fondò il New York Infirmary for Women and Children, un ospedale interamente gestito da donne, e si impegnò per creare opportunità educative e professionali per altre future mediche, che vedevano in lei una guida che aveva saputo piegare un intero sistema alla sua ferrea volontà.

La storia di Lizzie Garret

Elizabeth non solo cambiò il corso della propria vita, ma ispirò una rivoluzione che avrebbe influenzato generazioni di donne, come Elizabeth Garret, che nel libro, per evitare ambiguità, viene chiamata Lizzie. Rispetto alle altre protagoniste, lei ebbe la fortuna di nascere in una famiglia benestante di Aldeburgh, in Inghilterra. Il suo desiderio di diventare medico nacque leggendo un articolo sull'English Woman’s Journal che raccontava proprio la storia di Blackwell: nel 1860 iniziò il suo tirocinio al Middlesex Hospital di Londra, ma dovette affrontare una strenua opposizione con i colleghi che lanciarono una petizione per impedirle di frequentare corsi e sostenere esami, quindi, di fatto, di laurearsi. Nonostante ciò, Garrett non si arrese: trovò un modo per ottenere la licenza medica dalla Society of Apothecaries, sfruttando un cavillo perché si consentiva l'iscrizione a “tutte le persone,” senza distinzione di genere. Questa lacuna legale, comunque, fu rapidamente colmata per evitare altre ammissioni femminili. È importante notare che anche se Lizzie, dietro le sue buone maniere di cui si faceva vanto, era un vero e proprio mastino che non mollava mai (nel 1908 divenne la prima sindaca della Gran Bretagna), probabilmente non sarebbe riuscita nell’impresa se non fosse stato per le conoscenze e il sostegno di suo padre. Nel libro si evince chiaramente che se non ci fossero stati degli uomini illuminati e favorevoli (o quantomeno non ostili) alla carriera medica femminile, non sarebbe bastata l’incrollabile determinazione di queste donne.

Aspiranti mediche alla conquista della Scozia

Un esempio di questa amara verità fu quello che successe in Scozia. Sophia Jex-Blake scelse l'Università di Edimburgo, perché offriva un ambiente accademico apparentemente più aperto rispetto alle università inglesi. A quel tempo, la Scozia godeva di una buona reputazione per l’educazione progressista, e l’Università di Edimburgo accoglieva studenti internazionali. Sophia pensava che questi elementi potessero tradursi in un atteggiamento più tollerante verso l’ammissione delle donne, ma fu una vana speranza. Anzi, lei e le sue compagne, note come le Sette di Edimburgo, affrontarono ostacoli peggiori delle altre protagoniste del libro per laurearsi: anche se furono ammesse all’università, l’opposizione da parte di studenti maschi e docenti si intensificò, soprattutto quando le sette cominciarono a prendere voti più alti dei loro colleghi. Le proteste culminarono in boicottaggi e atti di violenza veri e propri, come quando gli studenti arrivarono a lanciare fango e rifiuti contro di loro nelle strade. Un episodio emblematico avvenne quando, dieci giorni prima della prova, il preside di facoltà, su pressione del Senato accademico, dichiarò che le loro iscrizioni erano state accettate “per errore” e che non avrebbero potuto partecipare alla sessione. Sophia, determinata a non arrendersi, si rivolse al giudice capo della contea, Lord Patrick Fraser, che confermò l’illegalità della decisione e ordinò al preside di ritirarla e solo grazie a questo intervento le donne poterono presentarsi all’esame. Ad attenderle, però, c’era una folla inferocita, e se non fosse stato per altri compagni di più larghe vedute che le scortarono letteralmente fino all’aula non avrebbero mai potuto arrivarci. Alla fine, la loro battaglia è arrivata fino al Parlamento britannico, cambiando per sempre le regole del gioco.

Anche le parole sono importanti

Campbell inquadra con maestria non solo le difficoltà individuali di queste donne, ma anche il contesto culturale che le rendeva delle outsider. Un contesto in cui si può constatare amaramente che se non fosse stato per altri uomini di più larghe vedute, gli ostacoli alla loro impresa sarebbero stati insormontabili. Le ragazze in camice bianco è una celebrazione di quanto è stato conquistato, ma anche un promemoria di quanto resta ancora da fare: una finestra su un diritto che oggi possiamo dare per scontato, ma che fino a pochi decenni fa era impensabile. Con una prosa coinvolgente e ben documentata, Olivia Campbell riesce a intrecciare ritratti profondi a dipingere efficacemente il contesto storico, mostrando come il coraggio e la perseveranza di poche abbiano aperto le porte a molte, perché la vera eredità di queste donne non è solo nelle corsie degli ospedali, ma nel modo in cui ci hanno insegnato a ripensare il mondo.

Istruttivo e a tratti ironico, questo libro è una lettura consigliata a chi vuole capire come siamo arrivati a parlare di mediche, chirurghe e scienziate senza (troppa) sorpresa. A questo proposito ci permettiamo un consiglio per i traduttori: nel libro, ma anche in molti altri scritti, si parla di “donne medico” o “medici donne”, che però è un ibrido piuttosto indigesto che fa pensare più a un ossimoro che a una professione, soprattutto se il tema principale è la discriminazione di genere. Come ricordano Scienziate per la società, è bene usare il regolarissimo femminile “medica”, e a chi protesta che suona male ricordiamo che era la stessa obiezione usata per altri femminili professionali, che ora sono entrati nell’uso e hanno smesso di “suonare male” (che tra l’altro è un’obiezione lecita ma del tutto soggettiva, che spinge a usare parole ambigue come “dottoressa”, che in Italia è il titolo da riservare a qualsiasi donna laureata). In un momento storico in cui la parità di genere è ancora lontana dall’essere raggiunta, le parole contano.

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