Questo non è un libro per tutti. Anzi è un libro decisamente difficile, che non aiuta a prendere sonno serenamente. Però è un libro con un’idea, una proposta, una tesi che a tratti diventa appassionante. Di quelle che ogni tanto ti fa dire: ma guarda, non ci avevo mai pensato… E allora continui a sfogliare e a cercare di tirar fuori la tua lucidità residua (scarsa, nel caso della sottoscritta recensora fresca di trasloco, che ha sentito di toccare l’infinito soltanto riflettendo sul planning dei lavori di ristrutturazione).
Il punto è: esiste il continuo in natura? Esiste qualcosa fuori di noi e della nostra percezione, della nostra illusione, della nostra volontà di eternità, insomma di tutta la nostra psicologia e quel che segue, che sia davvero continuo? (a parte i lavori di ristrutturazione, si intende). Paolo Zellini la domanda se la pone, e la presenta, molto meglio di così: matematico, saggista, accademico, ha scritto a lungo di infinito, di storia delle idee matematiche, e in generale di storia delle idee. E anche qui, in questo ultimo libro, torna su un punto già affrontato: i contatti tra matematica e spiritualità, l’origine in ambito rituale, mistico, metafisico di alcuni concetti della matematica. Quelli che hanno consentito di suddividere un altare, o di ingrandirlo, che si sono fondati su immagini archetipiche (come lo gnomone, la croce, la bilancia, la spirale) e quelli che ci hanno avvicinato a un’idea superiore di essenza con tutti i nostri sforzi di astrazione. È qui che è nato il continuo: presupposto ineliminabile del nostro pensiero, presente in tutte le culture. Ma il continuo è illusorio: noi non possiamo conoscerlo davvero, dice l’autore. Noi possiamo conoscere concretamente solo il discreto.
Eppure ci illudiamo di vedere nel discreto la frammentazione del continuo, e lo facciamo da sempre. Sin dall’antichità abbiamo stabilito l’esistenza di una scala continua di affinità intermedie tra Dio e l’anima (e semmai abbiamo inventato i demoni per riempire ogni spazio vuoto). Il creato immenso è per noi continuo, una catena di “essere” che lo riempie tutto. Ma ci stiamo sbagliando. Così come ci sbagliamo quando presupponiamo una contrapposizione tra continuo e discreto. Tutto questo diventa storia della scienza man mano che ci avviciniamo al presente, attraverso la costruzione del metodo della ricerca scientifica, attraverso Galileo e Newton e poi alla fine dell’Ottocento, quando ci sembrava di avere la natura in pugno. E nel Novecento, con le idee sovversive della meccanica quantistica, e Simone Weil che scrive: “la teoria dei quanti si inserisce in una lunga tradizione, perché fin dalla Grecia, la scienza è una sorta di dialogo tra il continuo e il discontinuo”. Ci possiamo vedere anche l’evoluzionismo e i suoi “salti” e la nascita dell’informatica e dell’informazione frantumata in bit. Ma allora perché non ci rinunciamo, al continuo? (La recensora lo ha chiesto davvero all’autore del libro, in occasione di una presentazione. E l’autore, in genere piuttosto composto, si è messo a ridere). Perché ci serve. Il continuo è uno strumento matematico indispensabile. Basta che ci rendiamo conto che si tratta di un’astrazione e non di un oggetto naturale. Che il mondo reale è dominato dal discreto e anche noi siamo discreti: discontinuità, anzi. Ciascuno di noi lo è: una granulosità della vita, presente qui e adesso. Forse.