SCIENZA E RICERCA
Foreste e deserti: impatti diversi del cambiamento climatico su fecondità e resilienza
Le conseguenze dei cambiamenti climatici non sono uguali per tutti. Né tra gli animali, né tra le piante. E a volte persino la famosa “resilienza dei boschi” può venire meno. È il caso delle foreste del Nord America che stanno reagendo dall’aumento delle temperature e dalla scarsità di piogge in modo diverso: in pratica la parte occidentale delle foreste nordamericane, con alberi vetusti, è meno resiliente al cambiamento climatico rispetto a quelle della zona orientale, più giovani. Una differenza che potrebbe alterare drasticamente la struttura complessiva delle foreste nordamericane, come denunciano oltre 60 scienziati della Duke University e di altri 47 istituti di ricerca forestale su Nature Communications.
Per monitorare le reazioni al cambiamento climatico delle foreste nordamericane su larga scala, il team di guidato da James S. Clark della Duke University ha utilizzato un nuovo software statistico grazie al quale è riuscito a “sintetizzare” decenni di dati grezzi su dimensioni, crescita, espansione della chioma e disponibilità di risorse relativi a circa 100.000 alberi, distribuiti negli oltre 500 siti forestali che fanno parte della rete di monitoraggio nazionale MASTIF - Mast Inference and Prediction.
Così il gruppo di ricercatori si è accorto che il cambiamento climatico impatta sulla fertilità delle foreste nordamericane in due modalità completamente opposte: la produzione di semi è aumentata nelle foreste orientali del Nord America, con alberi più piccoli e giovani; mentre nelle foreste occidentali, con alberi più grandi e vetusti, la produzione di semi è diminuita. Qual è il problema? Che il calo di fecondità nelle foreste occidentali potrebbe limitare fortemente la loro resilienza al cambiamento climatico, cioè la capacità di rigenerarsi, di disperdere i semi dove le loro probabilità di sopravvivenza futura sono più favorevoli e sopravvivere all’aumento delle temperature e all’intensificarsi della siccità.
La fecondità di una specie arborea o di un’intera foresta è un fattore essenziale per determinare le future risposte delle aree boscate ai cambiamenti climatici, ma come molti processi ecologici è altamente variabile e incredibilmente difficile da stimare. La fecondità infatti cambia nel tempo, in base alle dimensioni e all’età di un albero, in base al tasso di crescita o all’accesso alla luce, all’acqua e ad altre risorse necessarie per la crescita. «Questo spiega il divario Est-Ovest. La maggior parte degli alberi in Oriente sono giovani, crescono rapidamente e si trovano in una classe di dimensioni in cui la fecondità aumenta, quindi qualsiasi impatto indiretto del clima che stimola la loro crescita aumenta anche la produzione di semi» ha spiegato Clark.
“ A dirla tutta, neanche le foreste europee se la passano bene.
Va peggio invece alle foreste occidentali, con una prevalenza di alberi vetusti: età in cui la fecondità diminuisce naturalmente. «In realtà ci sono alberi giovani e vetusti in entrambe le regioni, ovviamente, ma nelle aree orientali prevalgono i primi, mentre nelle foreste occidentali prevalgono i secondi. E tanto basta per avere una struttura forestale differente, che rispondere in modi diversi ai cambiamenti climatici» continua Clark. «Ora il passo successivo è incorporare il diverso tasso di fecondità nei modelli che utilizziamo, per prevedere con maggiore precisione il futuro delle foreste nordamericane e sviluppare strategie di conservazione e gestione idonee a mitigare gli effetti del cambiamento climatico» ha concluso Clark.
Le foreste europee più vulnerabili al vento, al fuoco e alle malattie
Dalla Finlandia alla Spagna, quasi il 60% di queste è gravemente minacciata dal cambiamento climatico, secondo uno studio apparso a febbraio sempre su Nature Communications. Stavolta il team guidato dall’italiano Giovanni Forzieri, ricercatore al Joint Research Centre della Commissione Europea all’ISPRA, ha esaminato com’è cambiata la vulnerabilità delle foreste europee negli ultimi 40 anni.
E non ci sono buone notizie: dai primi anni del 2000 in poi, un aumento di 0,5°C della temperatura media ha reso le nostre foreste più vulnerabili alle tempeste di vento, a incendi e patogeni. «Sembra che abbiano superato un punto critico, oltre il quale le foreste hanno iniziato a perdere le loro capacità di difesa naturale» ha specificato Giovanni Forzieri. La loro vulnerabilità purtroppo è in aumento e si stima che potremmo perdere fino a 33,4 miliardi di tonnellate di biomassa (il 58% della massa forestale totale d’Europa). Le principali minacce sono le tempeste di vento, seguite da incendi e patogeni. A rischiare di più sono le foreste finlandesi, del Nord Europa e quelle presenti lungo l’arco alpino: le foreste tipiche di climi freddi e nevosi, insomma. Subito dopo, minacciate dagli incendi, ci sono le foreste secche e calde dell’entroterra spagnolo.
Effetti pesanti anche sui deserti
Ma a proposito di climi caldi e secchi, non si parla spesso delle conseguenze del cambiamento climatico sui deserti e sulle specie animali adattate a quelli che sono alcuni degli ambienti più estremi del nostro pianeta. Un nuovo studio pubblicato su Science mette invece in evidenza come popolazioni di piccoli mammiferi scavatori e di uccelli stanno reagendo diversamente al clima che cambia nell’arido deserto del Mojave, in California.
È facile credere che le specie adattate a vivere nei deserti abbiano vita facile con il surriscaldamento globale, ma non è così. Molte specie desertiche sono già vicine ai loro limiti di tolleranza di temperatura e aridità. Senza contare che ogni specie dipende da qualche altra specie, animale o vegetale, per l’alimentazione.
Nell’ultimo secolo, la temperatura media nel deserto di Mojave è aumentata di circa 2°C e le precipitazioni sono diminuite del 10-20%. Il cambiamento climatico sta avendo impatti diretti e significativi anche qui, con effetti a cascata ancora da comprendere a pieno.
Il team ha monitorato 34 specie di piccoli mammiferi e 135 specie di uccelli, presenti rispettivamente in 90 e in 61 siti nel deserto del Mojave, e ha scoperto che a soffrire di più gli effetti del cambiamento climatico sono gli uccelli: le loro popolazioni sono letteralmente crollate. Nei 61 siti monitorati, rispetto a un secolo fa, sono scomparse in media quasi la metà delle specie di uccelli precedentemente documentare: il 43%. Mentre nello stesso lasso di tempo, le popolazioni di piccoli mammiferi non sono diminuite in modo significativo.
Piccoli mammiferi scavatori come il topo dei cactus (Peromyscus eremicus), i ratti canguro (Dipodomys sp.) e lo scoiattolo antilope dalla coda bianca (Ammospermophilus leucurus) stanno quindi resistendo alle condizioni più calde e siccitose innescate dai cambiamenti climatici, molto meglio delle loro controparti alate. E questo probabilmente per il loro stile di vita.
La resilienza dei piccoli mammiferi sarebbe dovuta alla loro capacità di sfuggire ai raggi diretti del sole cocente rifugiandosi nelle tane sotterranee, costantemente fresche, e alla loro tendenza ad essere più attivi di notte che di giorno. Mentre gli uccelli attivi per lo più di giorno hanno bisogno di molta più acqua per regolare la temperatura corporea e devono mettere in atto una serie di strategie per raffreddarsi, per esempio ansimando a bocca aperta e facendo vibrare la gola, aumentando così il flusso d’aria, o rifugiandosi all’ombra.
L’aumento di temperatura nel deserto del Mojave nell’ultimo secolo e le diminuite precipitazioni avrebbero aumentato i costi di termoregolazione per gli uccelli del 58%, e solo del 17% per i piccoli mammiferi. E dunque, secondo i modelli elaborati dal team, i costi sarebbero stati circa 3,3 volte superiori per gli uccelli rispetto ai roditori, che dunque stanno affrontando meglio questo riscaldamento del deserto.
«Non si tratta solo di capire dove il pianeta si sta scaldando più in fretta e conoscere quindi quali specie ed ecosistemi sono più a rischio. Ma per prevedere gli effetti del cambiamento climatico, bisogna tener conto di molti aspetti della biologia di un organismo, tra cui la sua fisiologia, il suo comportamento, la sua evoluzione» ha sottolineato il primo autore Eric Riddell, ecologo all’Iowa State University. Ecco perché quando pensiamo al cambiamento climatico e all’impatto sulle specie animali e vegetali dobbiamo analizzare macro e micro-differenze, anche all’interno di uno stesso habitat. E questa complessità va non solo studiata, ma raccontata.