“Scoperta da G. Belzoni. 2 mar. 1818”. Una grande scritta sulla parete sud accoglie chi entra ancora oggi nella camera sepolcrale della piramide di Chefren. Quando Giovanni Battista Belzoni riuscì a penetrarvi, esattamente due secoli fa, era già suddito britannico da tre anni: quando però dovette lasciare una traccia del suo passaggio – come si usava allora, data la grande rivalità tra i vari archeologi e scavatori – fu per lui spontaneo usare la madrelingua.
Giambatta Antonio Bolzon (questo il suo vero nome) era infatti nato a Padova il 5 novembre 1778 nel rione Portello, al numero civico 42 della via che oggi porta il suo nome, e dopo una giovinezza avventurosa in giro per l’Europa era arrivato in riva al Nilo proprio mentre scoppiava la prima vera febbre per l’egittologia.
Una corsa alla scoperta e al ritrovamento con esploratori e avventurieri da tutto il mondo, in cui fin dall’inizio la figura del padovano svettò in tutti i sensi (era alto due metri e possedeva una forza leggendaria): in pochi anni, solo per citare alcune delle sue imprese, Belzoni riuscì a prelevare da Tebe il colossale busto del “giovane Memnone” (in realtà Ramesse II) che oggi fa bella mostra di sé al British Museum, penetrò nel famoso tempio maggiore di Abu Simbel e scopri l’ultima dimora di Sethi I, secondo molti la più bella delle tombe reali della Valle dei Re e la prima a essere quasi interamente decorata con pitture parietali.
Un personaggio straordinario dunque, a cui però ancora oggi non si presta sufficiente attenzione: anche per questo il giornalista e scrittore Alberto Siliotti gli ha dedicato il volume Giovanni Belzoni alla scoperta dell’Egitto perduto (Geodia 2017), una biografia dettagliata e agile ricca di oltre 400 illustrazioni: “Era necessario dimostrare chi era veramente e mettere in luce i suoi grandi meriti, sulla base di una documentazione scientifica – spiega Siliotti, da anni residente nel Paese nilotico –. All'estero Belzoni è considerato uno dei più importanti esploratori dell'Egitto nel XIX secolo, mentre in Italia e soprattutto nella sua città natale è quasi ignorato”.
Solo negli ultimi anni l’interesse intorno all’esploratore sembra essersi riacceso, tanto che nel 2013 gli è stato addirittura dedicato un albo a fumetti di successo. Proprio le scoperte di Belzoni, assieme a quelle del rivale Bernardino Drovetti, piemontese e console di Francia in Egitto, sono all’origine delle collezioni egittologiche oggi presenti nei più importanti musei europei. Belzoni collaborò soprattutto con il plenipotenziario inglese Henry Salt, in quella che fu chiamata la ‘guerra dei consoli’; vicende che comunque non vanno giudicate con la mentalità di oggi: “È ingiusto considerare Belzoni un ‘predatore’ di antichità – continua Siliotti –; in realtà è stato uno dei precursori dell'egittologia, in un'epoca in cui questa disciplina non esisteva ancora. E fu Belzoni ad allestire a Londra, primo al mondo, una mostra sull'antico Egitto…”.
La scoperta che comunque destò forse più scalpore fu proprio la riapertura dopo secoli della piramide di Chefren: fino ad allora infatti si riteneva, sulla base della testimonianza di Erodoto, che la piramide non avesse camere interne. Salt avrebbe voluto rimborsare le spese a Belzoni, che però rifiutò sdegnosamente: “Io non volli assolutamente – appunta nel suo diario – non trovando giusto che un altro pagasse le spese d’una impresa in cui nulla parte aveva avuto”. E questo ci dà la misura di come Belzoni, anche se privo di risorse e di posizione ufficiale, tenesse sempre alla propria indipendenza e dignità di scopritore, arrivando a chiedere che nei contratti si specificasse che lavorava ‘sotto gli auspici’ ma non agli ordini del console inglese.
Dopo il ritorno in Europa e alterne fortune, il cammino del grande Belzoni terminò in modo tragico nel villaggio di Gwato (oggi in Nigeria), dove morì il 3 dicembre 1823 in preda alle febbri e alla dissenteria. A 45 anni non aveva resistito al desiderio di partire per un’ultima avventura: stavolta alla ricerca della mitica Timbuctù, mai prima di allora descritta da un europeo. Ad attrarlo fu ancora la gloria, insieme ai 10.000 franchi messi in palio dalla Société de Géographie di Parigi: l’italiano infatti visse sempre in precarietà economica e non riuscì mai ad arricchirsi con le sue scoperte. Un destino il suo che forse non avrebbe potuto concludersi in altra maniera: era “nato viaggiatore come altri nascono poeti, ingegneri o astronomi”, scrisse un giorno il suo traduttore in francese Bernard Depping.
Pochi anni prima di morire era tornato per l’ultima volta la sua città dopo vent’anni di assenza, ispirando tra l’altro all’architetto Giuseppe Jappelli quella che diventerà cosiddetta “sala egizia” del futuro Caffè Pedrocchi, oltre a donare alla città due statue in diorite della dea leontocefala Sekhmet provenienti da Karnak, ancora oggi esposte ai Musei civici agli Eremitani. Non si tratta delle sue uniche scoperte oggi presenti in Veneto: altri reperti, tra cui la mummia di Nemenkhetamon, furono donati da Belzoni al dignitario dell’amministrazione turca Boghos Bey, di origine armena, che a sua volta lì invio al Museo armeno Mechitarista dell’isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia, dove si trovano tutt’ora. “In compenso non ebbe diritto nemmeno a una vera statua – conclude Siliotti – ma solo a una medaglia coniata in suo onore e a un tondo con la sua effigie nel grande salone di Palazzo della Ragione”.