Il pesce fa bene, non solo al cervello. Oltre al fosforo infatti la fauna ittica fornisce alla nostra alimentazione ferro, calcio, zinco, selenio, vitamina A e gli acidi grassi Omega-3. Tutte sostanze indispensabili al nostro corpo: i cosiddetti micronutrienti.
Un apporto che potrebbe rivelarsi fondamentale per le popolazioni dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa: negli ultimi anni infatti molto è stato fatto contro la denutrizione, ma il problema è ancora lontano dall’essere risolto definitivamente. In questi Paesi sono stati aumentati gli apporti calorici e proteici da un punto di vista quantitativo, ma c’è ancora da fare dal punto di vista qualitativo. Soprattutto nelle regioni equatoriali infatti le abitudini alimentari, basate soprattutto su una dieta vegetale, rimangono spesso povere proprio sotto l’aspetto dei micronutrienti. I quali, per effetto delle piogge abbondanti, sono anche meno presenti nel terreno e quindi nelle coltivazioni.
Il risultato è che ancora oggi, stando al Global Nutrition Report 2017, si stima che circa due miliardi di persone al mondo soffrano di carenza di micronutrienti, e che questo provochi grosso modo la metà delle morti premature dei bambini fino a cinque anni. Una situazione che si riflette anche sull’economia: solo in Africa, secondo alcuni studi, la carenza di micronutrienti provocherebbe ogni anno la perdita dell’11% del prodotto interno lordo.
Come combattere questa forma di denutrizione, diversa ma non meno pericolosa? Una proposta viene da un gruppo di ricercatori guidati da Christina Hicks della Lancaster University con uno studio pubblicato questi giorni su Nature. A soddisfare le esigenze della popolazione, soprattutto di quella costiera, basterebbe secondo gli studiosi gestire in maniera più accorta un bene immenso e tutto sommato accessibile: il mare.
In diversi Paesi infatti la maggior parte delle risorse ittiche sono sfruttate soprattutto da natanti stranieri, e anche la maggioranza del pesce sbarcato prende subito la via dell’estero. In media i Paesi africani esportano la metà del loro pesce, con punte che superano il 90%. In Namibia, Mauritania e Kiribati ad esempio rimane nel mercato locale meno del 13% del pescato, e proprio questi tre Paesi soffrono di una carenza endemica di micronutrienti.
“ In media i Paesi africani esportano la metà del loro pesce, con punte del 90% nei Paesi che soffrono di una carenza endemica di micronutrienti
L’export di pesce al momento attuale non costituisce nemmeno un volano di sviluppo per le economie locali. Secondo gli studi citati nella ricerca al momento la bilancia del commercio ittico tra Paesi poveri e quelli ricchi sarebbe in equilibrio, con i primi che svendono i loro prodotti per comprare a caro pezzo generi di lusso o comunque più costosi. Del pesce rimasto nel mercato interno poi buona parte non viene utilizzata per l’alimentazione umana bensì per fare mangimi per gli allevamenti ittici, diretti a soddisfare le esigenze dei ceti più ricchi.
Una situazione in cui la famosa “mano invisibile” del mercato non sembra riuscire ad assicurare una ripartizione equa oltre che razionale delle risorse. Intanto il deficit di micronutrienti continua a provocare un milione di morti premature ogni anno, e a pagare il prezzo della denutrizione sono come al solito soprattutto i bambini, nei quali la carenza di calcio, zinco e ferro possono provocare problemi di crescita e anemia, quando sotto i cinque anni di età basterebbe una porzione giornaliera di 100 grammi di pesce per risolvere il problema.
Hicks con il suo team ha studiato la quantità di micronutrienti presenti in 367 specie di pesci presenti nelle acque di 43 paesi, mettendola poi in relazione con la presenza di malattie legate all’alimentazione nella popolazione residente entro 100 chilometri dalla costa. Il risultato è che se in alcuni Paesi i pescatori trattenessero per il mercato interno anche solo una frazione di ciò che catturano, questo sarebbe sufficiente per una vera e propria rivoluzione in ambito sanitario. Alla Namibia ad esempio basterebbe riservare al mercato domestico appena il 9% dei pesci catturati nella sua zona economica esclusiva per soddisfare l’esigenza di ferro dell'intera popolazione costiera, mentre a Kiribati l'1% delle catture fornirebbe il calcio necessario a tutti i minori di cinque anni. In altri 22 Paesi in Asia e Africa occidentale circa il 20% del pescato soddisferebbe le esigenze dietetiche di tutti i poveri in termini di micronutrienti.
Il tutto senza sfruttare ulteriormente l’ambiente, ma semplicemente utilizzando al meglio le risorse esistenti. Il che significa innanzitutto sensibilizzare popolazione locale, orientandola al consumo consapevole del pesce fresco, ma anche agire sui consumatori di pesce d’allevamento perché esigano dai produttori l’utilizzo di mangime meno impattante dal punto di vista economico e sociale, assicurandosi che una parte sufficiente del pescato rimanga nell’area di origine. Perché il pesce fresco non fa solo bene alla salute: è un vero e proprio salvavita per l’uomo e l’ambiente.