Il 99% della comunità dei climatologi è d’accordo nel ritenere che il cambiamento climatico sia causato dall’uomo e che sia un fenomeno allarmante che richiede azioni urgenti. Questo però non significa che i climatologi tra di loro siano d’accordo su tutto o che non ci sia più nulla da scoprire o da capire nella scienza del clima.
Due famosi climatologi statunitensi ad esempio, Michael Mann e James Hansen, la pensano diversamente su quanto rapidamente stia procedendo il riscaldamento globale. Secondo Mann, i modelli contenuti nei rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) spiegano sufficientemente bene i dati relativi all’andamento delle temperature e delle precipitazioni degli ultimi anni. Di conseguenza, sono strumenti affidabili per predire quello che avverrà nei prossimi decenni.
Secondo Hansen invece i modelli dell’IPCC, per quanto utili, non sarebbero esattamente in linea con quanto emerge dai dati raccolti e quindi rischiano di sottostimare il riscaldamento globale che ci aspetta, restituendoci un rischio minore di quello che in realtà andremo ad affrontare.
Entrambe le parti presentano argomenti validi, supportati da evidenze verificabili. Il dibattito dunque è genuino e legittimo, perché si svolge secondo le regole del gioco scientifico. Lungi da essere sintomo di inaffidabilità della scienza, il disaccordo tra scienziati non è un’anomalia, ma anzi il motore della scoperta scientifica e della creazione, nel tempo, di un consenso condiviso. Il fatto che all’interno di una comunità scientifica ci sia dibattito è indice di salute: significa che quel campo di studi sta affrontando i problemi irrisolti e dunque sta progredendo.
È da leggere in quest’ottica il nuovo studio uscito su PNAS che individua anomalie riguardo all’intensità delle ondate di calore estreme degli ultimi anni. Secondo i ricercatori della Columbia University di New York e dell’International Institute for Applied Systems Analysis in Austria che hanno condotto lo studio, gli attuali modelli climatici sono in grado di spiegare bene l’aumento della temperatura media globale, ma perdono colpi quando sono messi di fronte a singoli estremi di temperatura raggiunti in alcune zone del pianeta, specialmente negli ultimi anni.
I modelli climatici sono lunghissime equazioni che incorporano le più avanzate conoscenze fisiche e matematiche sul funzionamento del clima terrestre, ovvero su come interagiscono tra loro l’atmosfera, gli oceani, i ghiacci e le terre emerse. Quando queste equazioni restituiscono risultati che non sono in linea con le osservazioni, in questo caso i dati di temperatura delle ondate di calore estreme, significa che alcuni dettagli del funzionamento di quel sistema estremamente complesso che è il clima ancora sfuggono alla comprensione. Lì c’è spazio per fare ricerca e migliorare i modelli.
Nel giugno del 2021 la porzione nord occidentale dell’Oceano Pacifico ha registrato un’ondata di calore che ha fatto raggiungere la temperatura di 49,6°C alla British Columbia, sfondando qualsiasi record precedente. Eccessi analoghi sono avvenuti con le ondate di calore che hanno investito l’Europa nel 2003, nel 2022 e nel 2023, ma anche con quella del 2016 in Sud Africa. Nel 2022 in Europa morirono più 60.000 persone, ma quell’anno il caldo estremo raggiunse il Nord America e la Cina. Similmente, nel 2023 non venne colpito solo il Vecchio Continente, ma anche la Russia, il Sud-Est Asiatico e il bacino dell’Amazzonia.
In alcuni di questi casi, a livello locale si sono registrati record termici che sono risultati fuori scala rispetto a quello che avrebbero potuto indicare i modelli, sostengono gli autori. In altre parole, ci si aspettava singoli eventi estremi, ma non così tanto estremi.
'Global emergence of regional heatwave hotspots outpaces climate model simulations' our new paper in @pnas.org with S. Bartusek, R. Seager. J. Schellnhuber and M. Ting investigating the tail behaviour of extreme heatwave trends. @iiasa.ac.at @columbiaclimate.bsky.social @lamontearth.bsky.social
— Kai Kornhuber (@kornhuber.bsky.social) 26 novembre 2024 alle ore 19:51
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Gli autori dello studio hanno analizzato i dati sulle ondate di calore degli ultimi 65 anni, dal 1958 al 2022, e li hanno confrontati con i risultati delle simulazioni ottenute dai modelli climatici. Questi ultimi, in alcuni casi, restituivano temperature più basse di quelle che in realtà si sono registrate. In particolare, i modelli non hanno colto a pieno gli eccessi termici dell’Europa nord-occidentale, della Cina centrale, della porzione meridionale dell’America Latina, della penisola arabica, dell’Australia orientale, di Giappone e Corea, del Canada nord-occidentale e dell’alto Artico.
Se in questi casi i modelli hanno sbagliato per difetto, per quanto riguarda l’Africa nord-orientale e la Siberia i modelli climatici hanno invece sbagliato per eccesso, ovvero hanno predetto temperature più alte di quelle che in realtà si sono verificate.
Secondo gli autori questi errori costituirebbero un’evidenza del fatto che i modelli climatici, pur essendo affidabili nello spiegare la media della temperatura terrestre, ovvero l’andamento complessivo del riscaldamento globale, faticano a cogliere gli estremi di temperatura a livello locale.
Questo potrebbe essere dovuto al fatto che alla formazione di eventi estremi come le ondate di calore eccezionali concorrono “interazioni fisiche che ancora non comprendiamo a pieno” ha dichiarato a Science Daily Kai Kornhuber, primo autore dello studio.
Gli scienziati del clima sanno già che suoli arsi, con bassi livelli di umidità, sono un fattore che può rendere ancora più violente le ondate di calore, che però sono anche condizionate dall’evaporazione prodotta dalle piante. Là dove il riscaldamento globale ha ridotto la copertura vegetale, che solitamente mitiga le ondate di calore, queste si fanno più intense.
Tuttavia, per quanto riguarda quelle dell’emisfero boreale, gli studiosi ritengono che un ruolo importante possa giocarlo una perturbazione della corrente a getto (jet stream). L’Artico è una regione del pianeta che si sta scaldando più della media globale e questo porterebbe a una destabilizzazione di questo flusso atmosferico, facendo permanere più a lungo in regioni temperate masse d’aria calda che viaggiano lungo questa corrente provenienti da sud. Il fenomeno è noto come onde di Rossby (Rossby waves).
Un altro elemento che i modelli climatici faticano a gestire sono gli aerosol, ovvero minuscole particelle che possono avere composizioni chimiche molto diverse, prodotte da attività antropiche come la combustione o gli spray, o da fattori naturali come le eruzioni vulcaniche. Alcune possono assorbire calore, altre rifletterlo.
Alcuni studiosi ritengono che una riduzione degli aerosol in grado di riflettere la luce solare possa aver aggravato le alte temperature che hanno investito l’Europa che, a prescindere dalle cause sottostanti, è un vero e proprio hotspot di ondate di calore, rimarcano gli autori dello studio.
Tutte queste però al momento sono solo ipotesi che andranno confermate o smentite da ulteriori studi. Quel che è certo è che le ondate di calore stanno diventando un fenomeno sempre più grave in diverse regioni del mondo, tanto da richiedere sistemi di allerta preventiva simili a quelli diffusi prima dell’arrivo di un uragano.
Studi come quello condotto da Kornhuber e colleghi sono molto preziosi perché vanno a identificare quegli ambiti in cui le conoscenze scientifiche a disposizione si dimostrano in qualche misura carenti. Significa che c’è ancora molta ricerca da fare e molto da scoprire. Con ogni probabilità, il prossimo rapporto dell’IPCC, in uscita verso la fine di questo decennio, integrerà queste nuove considerazioni per sviluppare modelli climatici il più accurati possibili e in grado di prepararci al futuro che ci aspetta.