Il dato è sconsolante: quasi il 50% dei ricercatori universitari abbandona la ricerca nell’arco di dieci anni dalla pubblicazione del primo articolo scientifico, e a farlo nei primi cinque anni è quasi un terzo del campione. Lo rivela uno studio condotto su quasi 400.000 scienziati e scienziate in 38 paesi OCSE e riguarda diverse discipline accademiche. Utilizzando dati bibliometrici globali provenienti da Scopus, lo studio segue le carriere di pubblicazione di due coorti di ricercatori e ricercatrici (una del 2000 con 142.776 partecipanti e una del 2010 con 232.843) fino al 2022. Le discipline analizzate sono quelle STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, and Medicine, per un totale di 16) e per abbandono della ricerca si intende la cessazione delle pubblicazioni su riviste scientifiche, anche se in realtà, come ammettono i ricercatori, sarebbe stato più adeguato individuare la cessazione completa dell’attività accademica, solo che su questa non erano disponibili dati a livello globale.
Il fenomeno viene analizzato anche dal punto di vista delle differenze di genere, andando nel dettaglio delle discipline specifiche, utilizzando un approccio longitudinale che permetta di individuare anche i cambiamenti nel tempo. Per studiare la probabilità che scienziati e scienziate continuino a pubblicare durante la loro carriera è stata usata l'analisi di sopravvivenza Kaplan-Meier, un metodo statistico utilizzato per capire quanto tempo passa prima che un certo evento accada e che restituisce una curva che mostra la probabilità di "sopravvivere" (cioè che l'evento non accada) dopo un certo periodo di tempo. Ogni volta che l'evento accade (quindi ogni volta che qualcuno smette di pubblicare), la curva scende. Questo metodo è utile per confrontare gruppi diversi, ad esempio uomini e donne, e vedere chi "resiste" più a lungo.
Già si sapeva che le donne tendono a lasciare prima degli uomini, e in proporzioni maggiori, il mondo accademico, ma gli studi, fino a questo momento, avevano seguito un approccio trasversale, il che significa che è come se fossero state scattate delle foto alla situazione in momenti diversi. L’approccio longitudinale, invece, è più simile a un video, che rappresenta l’evolversi della situazione nel tempo, e inoltre il campione di questa indagine è molto più ampio di quelle precedenti. Anche altri studi avevano già dimostrato come le donne fossero sottorappresentate in posizioni accademiche apicali, come facessero più fatica a collaborare a progetti di ricerca internazionali, a pubblicare su riviste con alto impact factor e quindi a essere citate: ora abbiamo la conferma basata su un campione molto più ampio.
“ dopo cinque anni, circa un terzo della coorte del 2000 ha abbandonato la ricerca scientifica, dopo 10 anni lo ha fatto la metà e dopo 19 anni circa due terzi.
Dallo studio è emerso che le donne abbandonano più spesso la carriera scientifica rispetto agli uomini in tutti i periodi analizzati, soprattutto nelle istituzioni di prestigio inferiore. Il calo maggiore nelle pubblicazioni, sia per gli uomini che per le donne, avviene nei primi 4 anni di carriera accademica, quindi a grandi linee nel periodo che coincide con il dottorato. Tuttavia, dopo il quarto anno, la percentuale di uomini che continua a pubblicare diventa superiore rispetto a quella delle donne, come già osservato negli studi precedenti. In generale, dopo cinque anni, circa un terzo della coorte del 2000 ha abbandonato la ricerca scientifica, dopo 10 anni lo ha fatto la metà e dopo 19 anni circa due terzi.
In termini di genere, le donne hanno un rischio maggiore di abbandono rispetto agli uomini: il 12,54% in più dopo 5 anni e l'11,52% in più dopo 10 anni. Alla fine dei 19 anni, la probabilità di continuare a pubblicare per le donne è del 29,4%, mentre per gli uomini è 33,6%, quindi gli uomini hanno una maggiore "sopravvivenza" accademica. Nella coorte del 2010, invece, le differenze di genere sono molto meno pronunciate rispetto alla coorte del 2000, con uomini e donne che mostrano tassi di abbandono simili. Va osservato comunque che le percentuali di abbandono sono aumentate a prescindere dal genere, con il 50% degli scienziati che rinunciano entro 8 anni dopo il primo articolo pubblicato.
Le differenze di genere nell'abbandono variano tra le discipline. Nella biologia, per esempio, l’abbandono femminile è più frequente, mentre in fisica e matematica le differenze di genere sono quasi inesistenti. La presenza femminile è però significativamente più bassa, quindi probabilmente si tratta di persone molto motivate sin dall’inizio. Per quanto riguarda le motivazioni dell’abbandono, lo studio non dice nulla, perché non ha previsto domande e sondaggi ai partecipanti, ma solo la raccolta massiva di dati. Studi precedenti, su un campione, va detto, più esiguo, portano a pensare che queste ragioni riguardino più l’ambiente di lavoro poco inclusivo che le esigenze personali e familiari.
Esistono due modelli per descrivere questo fenomeno: il primo usa la metafora del "leaky pipeline”, che descrive la perdita, durante i percorsi di carriera, del capitale umano femminile, che non raggiunge, se non con numeri molto ridotti, i ruoli apicali. Il modello immagina dunque che ci sia un “tubo” (pipeline) in cui le persone entrano all'inizio della carriera accademica per muoversi all’interno di esso man mano che avanzano nel loro percorso. L'obiettivo è arrivare fino alla fine, per accedere alle posizioni di potere o leadership accademica. Il problema è che questo tubo ha delle falle che ne disperdono il contenuto – prevalentemente femminile. Secondo il modello questo è dovuto a vari fattori, come la mancanza di opportunità di promozione, la discriminazione, e la difficoltà nel bilanciare lavoro e vita privata. Secondo questa visione, se si risolvessero questi problemi (per esempio fornendo più supporto alle ricercatrici), si potrebbero "tappare le perdite" e far sì che più donne restino nella scienza fino a raggiungere posizioni apicali.
Il modello alternativo è rappresentato dalla metafora dei pathways (percorsi). In questo modello, la carriera accademica non è vista come un unico tragitto lineare e continuo, ma piuttosto come una rete di percorsi complessi e ramificati, simile a un sistema idrico con diverse diramazioni. Le persone possono imboccare strade diverse, prendere pause o deviare per ragioni personali o lavorative. La carriera accademica, dunque, può procedere avanti e indietro, senza seguire una traiettoria predeterminata. In questo contesto, non basta sostenere le donne affinché restino all’interno del tubo grazie alla loro perseveranza o eccellenza. Le istituzioni accademiche dovrebbero apportare cambiamenti strutturali per creare un ambiente più inclusivo e flessibile, che tenga conto delle esigenze di vari gruppi che spesso vengono discriminati. Solo attraverso un approccio più ampio, che promuova l'inclusività in tutto il sistema, si potrà ottenere una vera parità per tutti i profili accademici.
Bisogna anche considerare che tutto il lavoro che viene fatto per cambiare la situazione richiede energie e tempo che viene sottratto ad altre attività. I dati ci dicono che se ne occupano soprattutto le donne, che ovviamente sono le più motivate in quanto parte in causa, perché se non si lavora per correggere la situazione loro saranno le prime a pagare perché la parità di genere non verrà mai raggiunta. Impegnarsi in questa direzione, però, significa anche togliere tempo alla carriera accademica, quindi è un serpente che si morde la coda, perché sul breve termine le donne saranno ancora più penalizzate, perché avranno meno pubblicazioni all’attivo e potranno concentrarsi meno su altre attività importanti per la carriera nell’immediato.
L’Europa ha contribuito alla causa con Horizon Europe 2021, il Programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, che rende la parità di genere nella ricerca una priorità. Horizon Europe richiede che le organizzazioni che partecipano ai bandi di finanziamento abbiano un Gender Equality Plan (GEP) per essere ammissibili, e questo piano deve includere azioni concrete per promuovere la parità di genere all'interno delle istituzioni di ricerca e innovazione, quindi parliamo di un requisito di eleggibilità obbligatorio per ottenere fondi dal programma. Il GEP deve coprire diversi ambiti, tra cui il bilanciamento di genere nelle carriere, la formazione sul tema e le misure contro le molestie sessuali, come parte di un impegno più ampio verso l'inclusione.
Programmi di questo tipo, però, riescono solo in parte a rimediare alle disuguaglianze strutturali che sono radicate in tutta la società, oltre che nel mondo accademico: chi arriva ai vertici vuole restarci, possibilmente da solo, e se per farlo deve schiacciare chi sta in coda ad aspettare il suo momento poco importa. Lo studio di cui abbiamo parlato fornisce una base quantitativa importante per lo sviluppo di politiche volte a promuovere l'uguaglianza nel mondo accademico, ma quello che sembra mancare è la volontà di mettere in discussione un sistema granitico, che è lo specchio di una società di cui invece dovrebbe essere il faro.