SOCIETÀ

Cop29: la finanza climatica delude i Paesi in via di sviluppo

Alla fine l’accordo sul nuovo obiettivo di finanza climatica si è trovato a Baku nella tarda notte di sabato 23 novembre, dopo ore di tensione in cui il negoziato della Cop 29 sembrava dover collassare. L’esito tuttavia è estremamente deludente per i Paesi in via di sviluppo, che chiedevano ai Paesi industrializzati (quasi una trentina) 1.300 miliardi di dollari l’anno per difendersi da un cambiamento climatico che non hanno causato e per avviare una transizione a fonti energetiche più sostenibili che evitino di produrre nuove emissioni al crescere di quelle economie.

Quei 1.300 miliardi sono menzionati nel testo finale, ma solo come obiettivo ideale a cui tendere attraverso un’ampia gamma di soluzioni finanziarie, pubbliche e private. Si è deciso invece, con una formulazione in gergo diplomatico più forte, che i Paesi sviluppati dovranno dare ai Paesi più svantaggiati entro il 2035 almeno 300 miliardi di dollari l’anno.

Il Sud del mondo chiedeva che i fondi fossero composti principalmente da finanza pubblica, mentre il testo approvato parla di un’ampia varietà di risorse sia pubbliche sia private, bilaterali (accordi tra Paesi) e multilaterali (tramite ad esempio la Banca Mondiale). Ciò significa meno peso sulle spalle dei Paesi ricchi.

A tale obiettivo, economie emergenti come Cina, Arabia Saudita e altri Paesi del golfo potranno contribuire su base volontaria, in quanto la classificazione dell’Onu del 1992 non li considera ancora Paesi sviluppati. Inoltre mancano dettagli sulla composizione di questa cifra: quante concessioni (grants) e quanti prestiti, quale percentuale alla mitigazione e quale all’adattamento.

I Paesi sviluppati inizialmente avevano proposto 250 miliardi e da lì si sono spostati di molto poco, nel corso delle due settimane di lavori. “250 miliardi non ci metteranno sulla strada di 1,5°C. Più su quella dei 3°C” aveva dichiarato Juan Carlos Monterrey Gomez, negoziatore di Panama.

I Paesi in via di sviluppo infatti non hanno risorse sufficienti per instradarsi autonomamente verso un modello economico sostenibile, né per difendersi dagli effetti degli eventi meteorologici estremi che frenano la loro domanda di benessere. Se queste risorse non verranno dai Paesi sviluppati, responsabili della maggior parte delle emissioni che hanno generato il riscaldamento globale, nel giro di pochi anni la loro crescita economica si tradurrà in nuove emissioni climalteranti che aggraveranno la crisi climatica in corso. Un mancato investimento in transizione oggi si traduce automaticamente in un conto climatico più salato da pagare domani.

Inflazione, incertezza geopolitica e guerre però hanno pesato sui negoziati di Baku e sulla disponibilità dei Paesi occidentali di allocare risorse che ad oggi sono state considerate, nei fatti, indisponibili. Ancora una volta l’impegno climatico scende in fondo alla lista dei problemi globali da risolvere.

La prima versione del testo sul nuovo obiettivo di finanza climatica, il New Collective Quantitative Goal (NCQG), uscita la prima settimana, contava 30 pagine e centinaia di parentesi e opzioni. All’inizio della seconda si era scesi a una ventina e giovedì 21, a un giorno dalla data ufficiale della fine della Cop, a una decina di pagine. Ancora però non era presente alcun numero riguardo all’obiettivo finanziario che avrebbe dovuto sostituire quei 100 miliardi l’anno decisi alla Cop 15 di Copenhagen nel 2009, nettamente insufficienti a rispondere alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo.

Venerdì 22 è stato pubblicata una nuova bozza che riportava non uno bensì due numeri: sia i 1.300 miliardi di dollari proposti dai Paesi in via di sviluppo, sia i 250 miliardi di dollari proposti invece dai Paesi occidentali. Il testo rifletteva la distanza dei due blocchi negoziali, che la presidenza azera non era minimamente stata in grado di mediare.

Amb Ali Mohamed, delegato del Kenya e rappresentante del gruppo dei Paesi africani, ha ricordato che le sole esigenze di adattamento dei Paesi in via di sviluppo ammontano a circa 400 miliardi di dollari e l’obiettivo dei 250 miliardi di finanza climatica complessiva era ampiamente insufficiente. “Uno scherzo” sono state invece le parole usate dei delegati di Uganda e Bolivia. “Uno sputo in faccia a Paesi come il mio” quelle invece del negoziatore di Panama, Juan Carlos Monterrey Gomez, che ha aggiunto “1.300 è circa l’1% del Pil globale. Non dovrebbe essere troppo quando stiamo parlando di salvare il pianeta su cui viviamo”.

Nel testo della presidenza non c’erano nemmeno riferimenti adeguati al fondo loss & damage, né indicazioni di somme da dedicare ai circa 40 Paesi dell’AOSIS, l’alleanza delle piccole isole oceaniche che stanno venendo sommerse dall’innalzamento del livello del mare, e al gruppo dei Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries – LDC, 1 miliardo di persone in 45 Paesi).

I partecipanti alla Cop sono andati a dormire venerdì sera non sapendo se dalle stanze della diplomazia climatica sarebbe uscito la mattina seguente un nuovo accordo, lo stesso accordo o nessun accordo. Come si dice in questi casi, la conferenza è andata ai tempi supplementari.

La mattina del 23 novembre a Baku si è aperta con una marcia silenziosa di un vasto gruppo di partecipanti con i polsi incrociati sopra la testa. Nel padiglione non era concesso agli attivisti di parlare, potevano farlo però sui social, dove il gruppo Demand Climate Justice ha scritto “Pay up or shut up”, pagate o state zitti.

Nel frattempo era iniziata a circolare la voce che i Paesi sviluppati sarebbero stati disposti ad alzare la loro proposta, arrivando a 300 miliardi di dollari entro il 2035. Ancora troppo poco per i Paesi del Sud del mondo e soprattutto per l’Aosis, che invece chiedeva che soltanto a loro venisse assicurato il 30% della somma totale.

Verso sera AOSIS e LDC hanno abbandonato temporaneamente i negoziati, dichiarando che non vedevano più le loro posizioni adeguatamente rappresentate. A mettere ancora più fuori dai binari le discussioni è stata poi l’Arabia Saudita, il cui rappresentante ha modificato una bozza della presidenza, cancellando una parte di testo sulla giusta transizione.

Sotto accusa è finita anche la presidenza azera, che secondo molti partecipanti non si è dimostrata all’altezza del compito assegnatole: “la mancanza di ambizione mostrata finora dalla presidenza è stata deplorevoleha dichiarato Steven Guilbeault, ministro per l’ambiente del Canada.

In queste condizioni di scontento e sconforto, Mukhtar Babayev, presidente della Cop 29, ha ugualmente convocato l’assemblea plenaria di chiusura senza tuttavia avere un testo finale condiviso. Ha dovuto quindi convocarne una seconda a tarda notte.

Per un attimo si è pensato che il ritardo fosse tale da non consentire il raggiungimento del quorum, ossia della presenza di almeno i due terzi dei rappresentanti degli oltre 190 Paesi. Alla fine però un compromesso si è trovato.

Il testo finale sul NCQG approvato alla Cop 29 riconosce che, da quanto emerge dai piani nazionali (NDCs – Nationally Determined Contributions), le esigenze dei Paesi in via di sviluppo in termini di finanza climatica sono tra i 5.100 e 6.800 miliardi di dollari da qui al 2030 (paragrafo 3); chiede (calls for) a tutti gli attori id aumentare tutti gli sforzi di finanza climatica (pubblica, privata, concessioni, prestiti) fino a 1.300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 (paragrafo 7); ma decide (decides) di fissare un obiettivo da raggiungere, sempre entro il 2035, di 300 miliardi l’anno per i Paesi in via di sviluppo, da raggiungersi tramite risorse pubbliche, private, bilaterali, multilaterali e altre ancora (paragrafo 8). I Paesi sviluppati devono prendere l’iniziativa (take the lead) per raggiungere questo obiettivo, mentre Paesi come Cina, Arabia Saudita e altri possono contribuire in modo volontario (paragrafo 9).

Piuttosto che far naufragare l’intera istituzione della Cop, il Sud del mondo ha ceduto a un obiettivo molto insoddisfacente. 300 miliardi di dollari sono il triplo dell’obiettivo precedente, ma tenendo conto dell’inflazione tra 10 anni non saranno minimamente sufficienti. Il precedente obiettivo dei 100 miliardi fissato nel 2009 era stato raggiunto con due anni di ritardo solo nel 2022. Ora dovrebbe iniziare la roadmap che porta da Baku a Belem, in Brasile, dove si terrà la Cop 30: inizierà cioè la faticosa salita verso quei 1.300 miliardi, che in realtà sono già un compromesso rispetto alle reali esigenze quantificate da uno studio del gruppo di esperti di alto livello sulla finanza climatica, e che ad oggi restano solo un miraggio.

Commenti durissimi sull’esito del negoziato sono arrivati in plenaria dalla delegata indiana, che ha denunciato come alcune parti non siano state ascoltate, e dal rappresentante di Cuba, che ha aggiunto che il nuovo obiettivo finanziario non rettifica “la protratta dinamica di colonialismo ambientale” subito dai Paesi in via di sviluppo.

Mohamed Adow di Power Shift Africa ha dichiarato che la Cop 29 è stata un disastro e un tradimento delle persone e del pianeta. Per il delegato del Pakistan, senza risorse finanziarie adeguate la crisi climatica si converte in una crisi del debito, soprattutto in quei Paesi dove siccità e alluvioni causano danni economici incalcolabili: “chiediamo giustizia climatica. Non è beneficenza, è un dovere morale”.

Più contenuta la reazione di Tina Stege, di quelle isole Marshall che sopra 1,5°C rischiano di scomparire sotto il livello del mare che si alza. Dei 300 miliardi ha detto che “non sono minimamente abbastanza, ma sono un inizio”.

“Tutti noi sappiamo quanto difficile sia stato, eppure il risultato di oggi è eccezionalmente importante” ha detto il delegato per il clima europeo, Wopke Hoekstra, che ha dovuto gestire i negoziati in assenza della leadership che solitamente assumono Stati Uniti e Cina, che a Baku sono rimasti, seppur per ragioni diverse, defilati. “Viviamo in tempi di geopolitica estremamente impegnativa, e dal mio punto di vista Cop 29 sarà ricordata come l’inizio di una nuova era per la finanza climatica, perché abbiamo lavorato per assicurarci che ci siano molti più soldi sul tavolo”. Il suo intervento non ha ricevuto alcun applauso.

Nella plenaria di chiusura è stata anche ufficializzata l’adozione dell’articolo 6 dell’accordo di Parigi, che sancisce la nascita di un mercato di crediti di carbonio gestito dalle Nazioni Unite. È stato anche reso operativo il fondo Loss & Damage, che però è fermo a 730 milioni di dollari, quando dovrebbe distribuire almeno 100 miliardi.

La presidenza azera invece ha deciso di non adottare il testo sulle procedure di valutazione degli impegni climatici nazionali (il cosiddetto Global Stocktake - GST) e di rimandare la decisione alla prossima Cop. La linea intransigente dell’Arabia Saudita infatti aveva fatto togliere ogni riferimento alla “transizione lontano dai combustibili fossili” che era invece stata il fragile successo della Cop 28 di Dubai.

Proprio la rappresentante del Brasile, Marina Silva, nel suo intervento di chiusura ha detto che quella di Belem “sarà la Cop delle Cop”. Entro febbraio i Paesi dovranno consegnare le loro NDCs aggiornate e presentarsi alla Cop 30 con impegni nazionali aggiornati in linea con l’accordo di Parigi, perché “dobbiamo riallinearci con un senso di urgenza e responsabilità”, “non c’è più tempo da perdere”.

La debole e precaria conclusione della Cop 29 non può che far risuonare le parole forti riportate in una lettera aperta, firmata il 15 novembre dal Club di Roma (il gruppo del famoso saggio sui limiti dello sviluppo), dall’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon e da scienziati del calibro di Johan Rockström, secondo cui nella forma attuale le conferenza sul clima non sono più in grado di assolvere al compito cui sono state preposte. Necessitano di radicali riforme, che consentano un monitoraggio più frequente e più stringente del progresso dell’azione climatica dei singoli Paesi, e di una revisione dei criteri di selezione del Paese ospite. Negli ultimi tre anni è sempre toccato a Nazioni con forti interessi nella difesa dei combustibili fossili: Egitto, Emirati, Azerbaijan. Anche il Brasile deve decidere quanto petrolio brucerà nella crescita economica che lo aspetta nei prossimi anni. Non è invece stato deciso dove si terrà la Cop 31 del 2026: se la giocano Australia e Turchia, ma anche su questo i delegati a Baku non sono riusciti a mettersi d’accordo.

 

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