SOCIETÀ

Tradimenti, terrorismo e violenza: la storia del Kurdistan

Il conflitto in Kurdistan ha una storia piuttosto complessa, fatta di tradimenti, promesse non mantenute, equilibri politici instabili e, soprattutto di violenza. Quando si fa riferimento al Kurdistan si va a indicare una vasta zona, di circa 550.000 chilometri quadrati, che si snoda tra il Nord della Siria e dell’Iraq, il vicino confine con Iran e Armenia e, infine, la parte orientale della Turchia. Non si tratta di un vero e proprio stato, ma piuttosto di un popolo che da un secolo rivendica la sua identità e chiede di essere autonomo. Secondo le stime i curdi sono tra i 30 e i 45 milioni, di cui più o meno la metà vive in Turchia. Nel Paese di Erdogan i curdi rappresentano una consistente minoranza: il 20% della popolazione totale. 

Questo popolo è da sempre stanziato nella parte nord della Mesopotamia e, dopo un periodo di emirati indipendenti, è stato annesso all’Impero Ottomano e all’Iran unificato dai Safavidi. Per l’Impero Ottomano le tribù curde, da subito, rappresentarono un problema di ordine interno, finché venne presa la decisione, sotto consiglio tedesco, di creare la cavalleria leggera “Hamidiye” e di sfruttare il loro caldo temperamento per tenere sotto controllo altre minacce, per esempio quella armena. Nei piani del sultano c’era la totale integrazione delle tribù curde nell’Impero, infatti assicurò dei posti di riguardo a corte a tutti quei notabili curdi che, se non si fossero schierati al suo fianco, sarebbero stati di certo contro di lui. La politica di integrazione portò ad alcuni frutti, per esempio, agli inizi del 1900 nacque una classe media curda, di tipo borghese, formata a Costantinopoli e in contatto con le idee borghesi europee di quel tempo. E che discendeva dai principi curdi che avevano combattuto contro l’Impero Ottomano. 

Con l’avvento della Grande guerra l’avventura nazionalistica dell’Impero Ottomano giunse al suo ultimo atto, e il Paese venne smembrato dalla conferenza di pace di Parigi. Le decisioni prese dalla conferenza furono molte, ma in questa sede basterà ricordare che vennero decise l’autonomia del Kurdistan, anche se i suoi confini dovevano essere ancora stabiliti, e l’indipendenza dell’Armenia. Il problema fu che queste decisioni vennero prese senza tenere conto del movimento nazionalista turco che controllava militarmente tutta l’Anatolia orientale. Anche il successivo trattato di Sévres prevedeva la creazione di uno stato curdo, sebbene ridimensionato, ma è con il seguente trattato di Losanna che i curdi furono traditi per la prima volta. Era il 1923 e il Kurdistan fu frammentato a seconda degli interessi delle potenze vincitrici. Iniziarono in quel momento le lotte del popolo curdo per il riconoscimento del diritto di poter creare un proprio stato, lotte che sono state represse, talvolta con episodi così violenti da costringere una parte del popolo a migrare lontano dalle proprie terre.

A seconda della realtà politica in cui il popolo curdo fu incluso ci furono evoluzioni diverse, pur sempre accomunate dalla repressione. La Turchia fondata dal generale Kemal Ataturk, uno dei protagonisti della guerra d’indipendenza, inizia la repressione militare in vista di uno stato centralizzato e sfavorevole alle minoranze: la popolazione curda viene obbligata a rinnegare la propria lingua e a “turchificarsi”. Altri curdi furono inclusi in Siria, che era un protettorato francese, e altri ancora in una “nuova creazione” sotto protettorato britannico: l’Iraq. La richiesta di indipendenza continuò a essere viva nei decenni successivi, ma tornò in primo piano dopo il secondo conflitto mondiale.

Il professore di storia delle relazioni internazionali Antonio Varsori ripercorre le principali tappe del conflitto del Kurdistan

Un nuovo spiraglio di speranza si affacciò all’alba del 1946, quando l’Unione sovietica incoraggiò i curdi a fondare uno stato autonomo. Nasce quindi la Repubblica di Mahabad nella porzione di Kurdistan iraniano: non uno stato a tutti gli effetti, ma una realtà che chiedeva di essere riconosciuta all’interno dello stesso Iran. La repubblica durò soli undici mesi: l’obiettivo dell’Urss era di annettere l’Iran del nord e, una volta ritirate le truppe sovietiche dal territorio, la Repubblica fu rasa al suolo. Mustafa Barzani, uno dei leader militari della Repubblica, tornò nel suo paese di nascita, l’Iraq e da qui guidò una rivolta nazionalista curda. Seguì un conflitto che durò fino al 1970, con episodi di guerriglia armata e di conseguenti repressioni.

Qualche anno più tardi anche per i curdi siriani iniziarono grossi problemi: circa il 20% di loro si vide espropriare le terre a favore di arabi e assiri, perse la cittadinanza, il diritto di voto e di partecipazione politica. Erano visti come una minaccia alla Siria unita, quindi nel giro di un decennio circa 30.000 curdi furono sfollati. Fu creata una sorta di “cintura araba” che separò il Kurdistan siriano dal Kurdistan della Turchia.

Il popolo curdo ha, purtroppo, un pesante primato: si tratta della popolazione più tradita. Una nuova promessa di aiuto per uno stato curdo venne fatta, e infranta, da Richard Nixon e Mohammad Reza Pahlavi, rispettivamente a capo di Stati Uniti e Iran. Nel 1972 lo Scià si rivolse a Nixon con la richiesta di dare sostegno alla rivolta dei curdi in Iraq. Nixon accettò e fornì armi ai ribelli, con lo scopo di minare la stabilità del Paese, a quel tempo filo-sovietico. Nel 1975 però, il sovrano persiano si accordò con l’Iraq e gli Stati Uniti si ritirano. Il popolo curdo si trovò abbandonato per la seconda volta.

Il conflitto si inasprì nuovamente attorno agli anni Ottanta, quando lo scontro militare si intensificò soprattutto in Turchia e in Iraq. A dare nuova linfa alle rivendicazioni curde furono una serie di movimenti politici, tra cui il più noto fu il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK. Fondato dal curdo con cittadinanza turca Abdullah Ocalan, aveva come obiettivo la creazione di una repubblica indipendente curda. Il PKK prevedeva l’uso indiscriminato della violenza: si insediò in Iraq del nord e da qui compì gli attentati terroristici contro la Turchia. Il conflitto, mai realmente risolto, causò migliaia di vittime su entrambi i fronti, e durò quarant’anni.

Prima di arrivare ai periodi più recenti, occorre fare riferimento a un’altra triste pagina del conflitto. Quando la guerra tra Iran e Iraq volse al termine, alla fine degli anni Ottanta, Saddam Hussein salì al potere a Bagdad e iniziò un vero e proprio genocidio contro la popolazione curda nel Paese. Il più tristemente noto fu l’attacco chimico di Halabja, nel marzo 1988, con cui furono uccisi con il cianuro 5.000 curdi, colpevoli di non aver opposto sufficiente resistenza al nemico iraniano. La repressione fu quindi durissima, ma la questione curda ritornò alla ribalta quando, nel 1990, l’Iraq invase il Kuwait. Le Nazioni unite risposero con l’embargo e Hussein concesse ai curdi l’autorizzazione di coltivare la “terra di nessuno”, ovvero le frontiere con Iran e Turchia. Nel 1991 fu George W. Bush, un altro presidente statunitense, a sostenere una nuova rivolta curda, anche questa strumentale per indebolire il Rais, ma la rivolta degli sciiti e dei curdi fu repressa nel sangue. Gli Stati Uniti imposero così una no-fly zone sulle montagne al confine tra Turchia e Iraq dove i curdi si erano rifugiati in migliaia, accordo che rimase valido fino al 2003 quando gli Stati Uniti invasero il Paese. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein la situazione si pacificò e la zona nord dell’Iraq ha ottenuto il riconoscimento di regione federale autonoma, con il nome di Kurdistan-Iraq o anche Regione del Kurdistan. Il ritiro delle truppe americane da questi territori si è concluso solo nel 2011, anno in cui si è formato anche un altro tipo di autonomia in Medioriente, il Rojava.

Lo scoppio della guerra civile siriana ha permesso ai curdi dello stato di formare un’amministrazione autonoma, nota come Rojava e ufficialmente riconosciuta dal governo. Il controllo del territorio fu ottenuto dall’Unità di protezione popolare, un gruppo di combattenti legato al PKK, e successivamente alleato con gli Usa, per contrastare l’avanzata dell’Isis

Nel frattempo in Turchia, il PKK, che aveva dichiarato il cessate il fuoco nel 1999, decise di infrangerlo nel 2004. Recep Tayyip Erdogan, da poco insediatosi al governo turco, promise di risolvere la questione curda con più democrazia rispetto ai suoi predecessori: riabilitò l’uso della lingua curda, restaurò i nomi di alcune città curde e approvò una parziale amnistia per ridurre le condanne ai militanti del PKK incarcerati. Lo stesso Ocalan, dal carcere, invocò la fine della lotta armata. Ma nel 2015 Erdogan, per questioni legate alla guerra civile in Siria e per motivi elettorali, ha interrotto la tregua e ha scatenato una guerra contro il separatismo curdo. Riprende così la guerriglia nel sud-est del Paese, con attentati anche su Istanbul e Ankara. Con una serie di decreti, possibili grazie alla dichiarazione di stato d’emergenza effettuata da Erdogan dopo il tentativo di golpe subito, organizzazioni, scuole di lingue e istituzioni culturali curde sono state chiuse, e a ridosso del confine siriano i sindaci eletti sono stati deposti e sostituiti da amministratori. La guerra di Erdogan ai curdi si fa ogni giorno più dura, non solo nei confini nazionali, ma anche in territorio siriano.

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La guerra al califfato dell’Isis ha visto per molti anni le milizie curde in prima linea in Siria, così pensava di dare vita, nella zona, a una regione con ampia autonomia come successo in Iraq, ma questa prospettiva non piace alla Turchia, che invece non concepisce la creazione di uno stato curdo lungo i suoi confini a est. La presenza dei marines americani in quella zona ha scongiurato ogni azione militare da parte della Turchia, ma nel 2018 è il presidente americano Donald Trump ad annunciare il ritiro delle sue forze armate, perché la guerra contro l’Isis è stata vinta. Dopo grandi proteste contro l’abbandono degli alleati, Trump si trova costretto al dietrofront, fino al 7 ottobre 2019, quando Trump dà l’ordine definitivo. Con gli americani diretti verso casa, la strada è sgombra per l’invasione turca della Siria.

L’obiettivo dichiarato di Erdogan è spazzare via la presenza delle milizie curdo siriane Unità di protezione popolari (YPG) e Unità di protezione delle donne (YPJ) dalle zone a ridosso della sua frontiera. Nella notte tra il 9 e il 10 ottobre la Turchia ha dato inizio alla sua “Operazione fronte di pace”, che con la sua violenza si è dimostrata piuttosto un imbroglio linguistico. 

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