Oggetti datati tra la fine del V e l'inizio del VI sec prevenienti da Kerch in Crimea. Collezione Berthier-Delagarde, British Museum (CC BY-NC-SA 4.0)
Lo vediamo anche oggi: tra gli effetti dei cambiamenti climatici ci sono anche le migrazioni di popolazioni umane. Un fenomeno già presente nell’antichità e che negli ultimi tempi viene sempre più valorizzato e analizzato da studi che si pongono al confine tra la ricerca storica e quella paleoclimatologica. Le recenti tecniche permettono infatti di ricostruire sempre più nel dettaglio le condizioni ambientali nelle quali hanno vissuto i nostri avi, fornendo spunti utili per una rilettura – complementare o alternativa – anche degli eventi storici più noti.
Se ad esempio una ricerca ha messo in luce le possibili influenze del clima sulla vittoria e la diffusione dell’Islam nella penisola arabica, in particolare a causa di tremendi periodi di siccità che avrebbero indebolito le strutture statali preesistenti, un ragionamento analogo è stato recentemente applicato anche alle invasioni barbariche. Lo studio, pubblicato sul Journal of Roman Archaeology, ipotizza che periodi di estrema siccità tra il 420 e il 450 d.C. abbiano sconvolto a tal punto le condizioni di vita delle popolazioni dell’Europa-orientale da costringerle ad adottare nuove strategie per sopravvivere. La diminuzione delle precipitazioni avrebbe insomma spinto genti stanziate alle foci del Danubio, dove da tempo vivevano di agricoltura e di allevamento, a premere sempre più spesso sul limes romano: un’ipotesi che potrebbe gettare luce anche sulle origini degli Unni, finora ancora sostanzialmente avvolte dalla nebbia della storia.
Gli autori dello studio, l’archeologa Susanne Hakenbeck e il geografo Ulf Büntgen, entrambi dell’università di Cambridge, sono giunti a queste conclusioni dopo aver valutato, oltre a fonti storiche e archeologiche, anche nuove ricostruzioni idroclimatiche basate sull’analisi degli anelli di accrescimento degli alberi, in particolare 147 antiche querce (21 ancora viventi) provenienti da aree situate tra la Repubblica Ceca e il sud est della Baviera. Il dati ricavati confermano il moltiplicarsi di periodi di siccità dal 420 d.C. fino più o meno alla morte di Attila nel 453, con un acuirsi del fenomeno soprattutto dopo il 430. Un periodo compatibile con le incursioni unne più devastanti contro territori e città romane – in particolare quelle del 447, 451 e 452 d.C. –, le quali avrebbero avuto luogo proprio durante estati particolarmente torride.
La tesi sostenuta da Hakenbeck e Büntgen è che le bande guidate da Attila avessero sviluppato senso di appartenenza e unità d’azione su base “politica” piuttosto che etnica, riunendosi sotto la guida di un grande leader militare per tentare di fronteggiare condizioni ambientali sempre più dure e inospitali. La stessa loro richiesta di una fascia di territorio al di qua del Danubio assumerebbe secondo questa prospettiva un significato nuovo, potendo essere motivata dalla necessità di trovare terreni migliori per le coltivazioni e il foraggio. Una ricostruzione che coincide solo in parte con le testimonianze coeve, che dipingevano gli Unni come nomadi provenienti dall’Asia animati da un’“insaziabile fame d’oro”, per dirla con Ammiano Marcellino.
Perché questa discordanza? Sul punto gli autori si suggerisce che gli storici romani piuttosto che su una conoscenza effettiva dei popoli descritti possano essersi basati su stereotipi, che identificavano il nemico con il barbaro e quindi con il nomade. Del resto anche lo storico greco Prisco di Panion, l’unico a fornire una testimonianza oculare dei rapporti tra Unni e Romani, scrisse di aver incontrato e conversato a lungo con un greco vestito con abiti sciti (cioè unni): un dato che secondo Hakenbeck e Büntgen proverebbe l’assenza di un’origine comune e la prevalenza in quella comunità del fattore politico rispetto a quello etnico. Per avvalorare la loro ipotesi gli autori citano inoltre ritrovamenti archeologici, secondo i quali i manufatti unni sarebbero eterogenei e difficilmente distinguibili da quelli provenienti da altre popolazioni coeve, e studi condotti recentemente da Hakenbeck su cinque cimiteri risalenti al V secolo posti all'interno della grande pianura ungherese, che proverebbero che la dieta unna sarebbe differente da quella normalmente adottata dalle popolazioni di pastori nomadi dell’Asia centrale.
Gli studiosi di Cambridge insomma ventilano – senza peraltro fornire prove decisive – un vero e proprio mutamento di paradigma, che metterebbe addirittura in dubbio alcuni caposaldi della storiografia, come ad esempio la distruzione di Aquileia nel 452 d.C., che come è noto è storicamente messa in relazione con l’ascesa della città di Venezia. Una ricostruzione sicuramente affascinante ma ancora da verificare, e che induce anche a riflettere sull’impatto delle cosiddette hard sciences sulle ricerche storiche e su quelle umanistiche in generale.