SOCIETÀ
Charlie Hebdo in Paradiso. Scontenti
Parigi, 10 gennaio 2015. Foto: Reuters/Stephane Mahe
Se esiste un paradiso dei vignettisti sicuramente Cabu, Charb e Wolinski sono lì (premio alla carriera) ma devono essere occupati a disegnare freneticamente delle caricature oscene di Hollande e Merkel travolti dalla passione in Place de la République, avendo visto su Paris-Match la foto dei due statisti teneramente abbracciati alla fine della manifestazione di domenica. Sì, perché quelli di Charlie Hebdo erano grandi disegnatori, grandi giornalisti ma non erano “gente per bene”: il loro umorismo era scatologico, volgare, spesso infantile. Luz, uno dei sopravvissuti alla strage della settimana scorsa, l’ha detto in un’intervista, in lacrime: “Siamo un giornaletto studentesco (un putain fanzine) perché ci prendono sul serio?”.
Lo slogan “Je suis Charlie” è stato l’hashtag più twittato di sempre, milioni di persone hanno esposto cartelli o striscioni per riprodurlo, ma la verità è che fino a giovedì scorso Charlie Hebdo non era l’indirizzo giusto da mettere sul biglietto da visita se ci si voleva fare invitare ai cocktail dei ministeri e delle ambasciate. Le caricature di Maometto erano arrivate dopo una storia decennale di vignette contro il cattolicesimo, l’ebraismo, i vari presidenti francesi, i banchieri e il razzista e xenofobo Front National. La loro specialità era esagerare, suscitare disgusto, insultare tutti, offendere i potenti nel modo più sanguinoso. Il governo socialista che oggi li ha santificati e trasformati nel simbolo dei valori eterni della Francia li detestava, giustamente ricambiato.
Un po’ di storia è necessaria per mettere ciò che è accaduto nel suo contesto: Charlie Hebdo nasce nel 1960 come Hara-Kiri (“suicidio” in giapponese) e già nel 1961 viene proibito dal governo. Torna in edicola e, di nuovo, nel 1966, viene censurato. Dopo una copertina irriverente sulla morte del presidente francese Charles de Gaulle, nel 1970, il ministero degli Interni chiude il giornale, che per continuare le pubblicazioni deve cambiare testata e diventa Charlie Hebdo. Durerà fino al 1982. Chiuso per dieci anni, Charlie Hebdo rinasce dalle sue ceneri nel 1992: viene creata una società editrice che, tragica ironia, si chiama Les Editions Kalachnikof, come il mitra usato nella strage.
Culturalmente, la nuova compagine editoriale si ispira alle tradizioni francesi di satira settecentesche (le caricature contro la regina Maria Antonietta) e soprattutto all’anarchismo ottocentesco: “Né dio, né padroni” sembra essere il loro motto, con una particolare venatura anticlericale (un atteggiamento che in Francia ha radici più profonde di quelle italiane, forse grazie al fatto che tra loro e il Vaticano ci sono di mezzo le Alpi, e non il solo Tevere). Trascinati in tribunale più volte da associazioni cattoliche integraliste, vincono sempre in nome della laicità dello stato e della libertà di espressione.
Nel 2002 un collaboratore, Robert Misrahi, recensisce favorevolmente il pamphlet di Oriana Fallaci La rabbia e l’orgoglio ma il giornale, dopo numerose proteste dei lettori, fa marcia indietro. È solo nel 2006 che scoppia il caso, con la ripubblicazione di una serie di vignette su Maometto del danese Jyllands-Posten. Nelle polemiche si dimentica però che gli stessi redattori non sembravano dare particolare importanza a questo tema: Charb (Stéphane Charbonnier, ucciso mercoledì scorso) dichiarava che Charlie Hebdo avrebbe continuato a occuparsi soprattutto di chiesa cattolica perché largamente maggioritaria tra i francesi.
Questa distinzione tra la satira contro il potere e la satira contro una minoranza etnica o religiosa, come sono i musulmani in Francia è il problema centrale, il cuore della vicenda Charlie Hebdo. Lo scrittoreSalman Rushdie ha affermato che “l’arte della satira è sempre stata una forza in favore della libertà e contro la tirannide, la disonestà e la stupidità” ma le cose non sono così semplici. La caricatura è stata spesso usata contro i nemici esterni e interni, in particolare contro le minoranze. Le vignette antiebraiche dei giornali nazisti non erano certo un esercizio di libertà.
Joe Sacco, un giornalista-disegnatore molto noto per i suoi reportage a fumetti, ha pubblicato sul Guardian una riflessione sulla satira e i suoi limiti, chiedendosi se le vignette contro le minoranze come i neri, gli ebrei e, oggi, i musulmani, siano davvero un esercizio di libertà. Sacco ha disegnato un uomo incappucciato con le braccia aperte, un riferimento alla celebre foto di un prigioniero iracheno torturato dagli americani, per spiegare che certe immagini, per i musulmani non siano affatto divertenti, né siano espressione di libertà ma piuttosto il contrario.
L’universalismo dei valori è una gran bella cosa ma, come ci ricorda il fotografo e scrittore Teju Cole, non tutte le vite hanno lo stesso valore nel mondo di oggi: i giornalisti uccisi a Parigi fanno accorrere capi di stato da tutto il mondo, mentre neppure conosciamo i nomi di quelli uccisi a Gaza nel corso dell’ultima operazione militare israeliana, di quelli arrestati in Egitto, di quelli frustati pubblicamente in Arabia Saudita per aver criticato la monarchia. I regimi amici evidentemente hanno uffici stampa più efficaci e professionali di quello di Al Qaeda dello Yemen.
Dove passa la linea di demarcazione tra satira e incitazione all’odio razziale, o religioso? E quella tra difesa dei principi Liberté-Egalité-Fraternité e appelli alla guerra contro l’Islam in quanto tale? In questi giorni l’isteria di molti politici e giornalisti è tornata ai livelli del 2001, dopo l’11 settembre, come se le inutili e sanguinose invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq non avessero insegnato nulla ai bellicosi commentatori. E, naturalmente, più un governo è incompetente e impopolare e più la tentazione di distrarre l’opinione pubblica con una guerra al momento giusto è forte.
Se, nel paradiso dei vignettisti, Wolinski e Cabu stavano guardando in giù tra i due milioni di persone scese in piazza a Parigi domenica devono aver visto una sola cosa apprezzabile per loro: una ragazzina con un cartello colorato che diceva: “Da grande farò il giornalista. Io non ho paura”.
Fabrizio Tonello