SCIENZA E RICERCA
Ruberemo il fuoco al Sole
Il mito dell’energia inesauribile alla portata di tutti è più vivo che mai. A Padova c’è chi sta studiando l’idea di mettere “il sole in una scatola”. Lavorano a questo i ricercatori del consorzio Rfx di Padova: la fusione termonucleare, un termine che potrebbe far raggelare il sangue ma che in realtà non ha nulla a che vedere con il timore delle radiazioni, con cui conviviamo dallo sgancio della prima bomba atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945. Nei laboratori di Padova, in corso Stati Uniti, con la partecipazione di altri partner europei, si lavora a una parte dell’ambizioso progetto di creare una reazione controllata, simile a quella che avviene ogni giorno sul sole, per creare una fonte di energia in grado di soddisfare generazioni e generazioni di persone.
La fusione. Per fusione si intende il processo attraverso cui due nuclei di atomi diversi si uniscono, generando una conseguente energia. Questo avviene perché il prodotto della fusione ha una massa minore rispetto ai reagenti, e la massa mancante si è trasformata in energia. In natura è quanto fa il sole. Nel mondo scientifico, invece, si sta cercando di creare e, soprattutto, controllare la fusione tra nuclei di deuterio e trizio (isotopi “cugini” dell’idrogeno). Il primo elemento è facilmente reperibile in natura e si ricava dall’acqua. Il trizio, invece, si può recuperare dal litio (quello delle comuni batterie per i cellulari) e sarà prodotto in futuro all’interno dello stesso reattore di fusione. Questo sulla carta, ma le variabili negli esperimenti sono molte. Per portare davvero il sole sulla terra, a Padova, il consorzio Rfx (partner l’università di Padova, Cnr, Enea, Infn e Acciaierie venete Spa) lavora da anni allo studio del plasma: il gas ionizzato ad altissima temperatura (circa 15 milioni di gradi kelvin) al cui interno si studia il processo di fusione dei nuclei. Il plasma viene ottenuto all’interno di una grande “ciambella” toroidale, il nucleo ingegneristico dell’esperimento, in cui il gas viene riscaldato e poi mantenuto in posizione attraverso un campo di forza elettromagnetico. La ciambella, denominata Rfx (reversed field experiment), garantisce lo studio del plasma generato al suo interno e permette, attraverso un controllo in feedback (come i sistemi di verifica delle prestazioni di un’auto o anche il funzionamento di un termostato per il condizionatore), effettuato da numerosi apparati di monitoraggio, di verificare in tempo reale quanto accade all’interno della camera toroidale. La linea Rfp (reversed field pinch) del consorzio Rfx fa parte della sperimentazione che sta portando alla costruzione, nel Sud della Francia, del reattore Iter (International thermonuclear experimentale reactor, ora denominato the way to new energy) che avrà il compito di dimostrare la fattibilità nell’ottenere una reazione di fusione stabile, in grado di produrre 500 megawatt di potenza. Il reattore si avvarrà di una camera di reazione diversa da Rfp: il tokamak, di forma sempre toroidale ma che differisce dall’Rfp per la forma e intensità del campo magnetico usato per il contenimento del plasma. “Il tokamak – spiega il professor Piero Martin, responsabile scientifico dell’esperimento Rfx, insieme alla dottoressa Maria Ester Puiatti e al responsabile operativo Loris Apolloni – è stato scelto per la realizzazione finale di Iter per l’ottenimento di risultati migliori rispetto a Rfp (su di esso si è investito molto di più rispetto alle linee alternative, di conseguenza il parco esperimenti è più ampio e con macchine più performanti, Ndr). Qui a Padova cerchiamo di comprendere se il nostro esperimento possa essere una linea alternativa al tokamak per un futuro posteriore al reattore Iter”. In pratica si cerca di verificare se la configurazione Rfp possa avere o meno dei vantaggi da poter essere utilizzati in seguito, quando sarà costruito Demo, il primo reattore a fusione nucleare che avrà lo scopo di dimostrare la possibile commercializzazione dell’energia da fusione, convertita in normale energia elettrica.
Ma la ricerca sull’Rfp, in particolare sul controllo in feedback tramite i sensori di cui è dotato, permette anche di dare un altro aiuto concreto al tokamak: verificare se le stesse tecniche di controllo possano essere utilizzate anche sul tokamak stesso. “Il nostro controllo in feedback – prosegue Martin – può essere paragonato, in parole povere, all’Abs montato sulle automobili che corregge comportamenti errati della vettura. Noi, per il tokamak, saremo una sorta di galleria del vento”. Il team di ricerca guidato da Martin volerà presto negli Stati Uniti, a San Diego: i ricercatori hanno infatti vinto di recente un concorso di idee per proporre esperimenti innovativi da testare sul tokamak della General Atomics, il secondo più grande del mondo.
Mattia Sopelsa
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