CULTURA
Sul buon uso della vergogna: il ruolo sociale di un'emozione
Segno dei tempi, debutta oggi la serie televisiva Shameless (Svergognati) prodotta da Hbo (21,15 su Mya). Sul ruolo sociale della vergogna è uscito recentemente lo studio di Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012, di cui pubblichiamo un estratto per gentile concessione della casa editrice (pp. 132-135).
Ci può essere un buon uso della vergogna? Può questa emozione mettere in moto giudizi, scelte e azioni che riaffermino il senso di sé e la relazione con il mondo?
Comunemente si associa alla vergogna l’umiliazione, la disistima sociale e l’indebolimento dell’autostima e si tende a credere che la vergogna, minacciando l’integrità dell’Io, sia paralizzante e per questo induca le persone a nascondersi e a isolarsi.
“Dovresti vergognarti!” “Vergognati!” “Ma non ti vergogni?” sono espressioni performative e normative e chi le pronuncia esercita un forte potere sulla persona a cui sono rivolte. Quando si costringe qualcuno a vergognarsi lo si umilia. È un modo di spogliare l’altro di ogni dignità, di isolarlo in quanto colpevole e indegno. La vergogna come stigma imposto da altri, o come emozione autocentrata, può provocare disagio e depressione. Vergogna e depressione spesso vanno di pari passo, ma non è un connubio scontato né ineludibile. E questa coppia “malefica” e nociva può essere evitata o scissa. La vergogna ha due declinazioni e due significati opposti fra loro. L’una conduce all’annullamento e alla perdita di sé, l’altro invece può dare inizio a un processo di riflessione e di ricostruzione del Sé.
In uno studio sulla vergogna lo psicoanalista Serge Tisseron ha individuato due aspetti fondamentali e opposti di questa emozione: “Un significato tragico e un significato di redenzione. Nel primo caso la vergogna è il segno vissuto dell’emarginazione effettiva: chi la prova in qualche modo ha già costruito una trincea tra sé e il genere umano. Nel secondo, invece, la vergogna è la prova che il divorzio con l’umano non è stato ancora consumato: provare vergogna significa sentire che non si è passati completamente ‘dall’altra parte’, lì dove la vergogna è nominata dagli altri senza più essere provata da sé. Sul primo di questi versanti la vergogna accompagna lo scivolare verso l’indegnità dell’inumano. Sul secondo è percepita come la protezione più efficace contro questo rischio”. Mentre la prima forma di vergogna invade, la seconda – dice Tisseron – come un campanello d’allarme “segnala al soggetto che non può ancora superare il conflitto che sta all’origine della vergogna ma che è responsabile della sua soluzione”.
La vergogna può ravvivare la nostra umanità, funzionare come richiamo emozionale a noi stessi, per riprendere il cammino insieme agli altri. E, in questo caso, invece di condurre verso la depressione ci segnala che quella sofferenza, quel dolore fa di noi degli esseri umani, degli individui la cui vita è intessuta di relazionalità. Più che indurci all’isolamento, la vergogna può ricondurci al nostro ineliminabile essere con. Il buon uso della vergogna risiede nell’ascoltare quel richiamo a ricongiungerci con gli altri, nell’usare questa esperienza dolorosa per riconoscere il nostro essere relazionale e come rifiuto di un narcisismo che ci fa credere che possiamo bastare a noi stessi, che possiamo e dobbiamo ritirarci dal mondo.
Il buon uso della vergogna induce alla consapevolezza dei propri limiti e della propria fragilità perché trasforma questa emozione da vergogna della dipendenza e della propria limitatezza in desiderio di rafforzare l’interdipendenza, i legami, le relazioni. La vergogna si fa timore non del limite e dell’altro, ma timore dell’essere senza limiti, senza confini, perché non c’è più niente e nessuno che ci contenga. Si nasconde spesso la vergogna per nascondere la propria finitudine e imperfezione, per nascondere la propria fragilità, ma il silenzio con cui la si copre, anziché eliminarla, la fa lievitare, la fa crescere. La vergogna, proprio in quanto emozione-sentimento relazionale che nasce nell’intersoggettività, non può essere superata, elaborata e “ben usata” se non attraverso la relazionalità.
Il buon uso della vergogna consiste in un doppio movimento che permette di riconoscere e accettare questa sofferenza, ma al tempo stesso spinge a liberarsene, a elaborarla e a trasformarla da limite in risorsa. Riconoscere di vergognarsi senza nascondersi sembra essere il primo passo verso un buon uso della vergogna: “La vergogna è un segnale d’allarme, ma anche un segnale di resistenza. La vergogna vissuta senza il progetto di svincolarsene rende impotenti e questa impotenza perpetua la situazione che genera vergogna in un circolo vizioso infinito. Viceversa la vergogna vissuta come segnale d’allarme permette di nominarla e di reagire con varie strategie di adattamento. Ma trovare il coraggio di cominciare a parlare non basta a risolvere il problema. La vergogna, poiché è una forma di relazione, non può essere risolta se non attraverso un altro legame”. Il legame a cui si riferisce la psicoanalisi non può essere che quello che si crea nell’analisi, e in cui la vergogna viene detta e riconosciuta in quanto tale. Ma nominarla e accettarla non è sufficiente per tramutarla da emozione paralizzante e avvilente in una forza, in una spinta a ridefinirsi e a ripensarsi in termini di esseri relazionali.
La vergogna è un’emozione sociale anche perché più di altre si forma e si manifesta sempre in collegamento con emozioni espresse dagli altri. La collera, l’ira, l’indignazione mostrate nei nostri confronti provocano un senso di vergogna, perché sono emozioni che esprimono un giudizio negativo su di noi, su come siamo e su come veniamo percepiti. Come sostiene Jon Elster, la trasgressione di una norma tende a suscitare in altri delle emozioni che a loro volta suscitano in colui che la trasgredisce un senso di vergogna invece che di colpa: “L’espressione della collera e dell’indignazione tendono a suscitare nella persona contro cui sono dirette l’emozione spiacevole della vergogna. Il solo fatto di aspettarsi questa emozione è ciò che rende operanti più di ogni altra cosa le norme sociali”. Anche solo immaginare la collera o il biasimo degli altri nei nostri confronti può allora indurci a evitare situazioni e comportamenti “vergognosi”. La vergogna è un’emozione che nasce in riferimento non solo al reale o immaginario giudizio degli altri, ma anche in relazione alle emozioni degli altri. Insomma, si forma in un contesto che è fortemente segnato dalle emozioni e non solo dalle norme. Se quelle norme trasgredite non implicassero emozioni, se non si accompagnassero a emozioni, la loro forza sarebbe molto indebolita.
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