SOCIETÀ
Tina Merlin, la voce inascoltata del Vajont
La diga del Vajont. Foto: Angelo Palma/A3/Contrasto
L’hanno soprannominata "la Cassandra del Vajont", perché, inascoltata, scriveva su l’Unità del pericolo di qualcosa di molto simile a quel che poi successe: il franamento "improvviso", una notte di ormai quasi cinquant’anni fa, di una massa enorme di terreno dal lato sinistro del monte Toc. La frana si riversò nel bacino pieno d’acqua della diga a doppia curvatura più grande al mondo, infelicemente nota ai posteri come “diga del Vajont”, che la Società Adriatica di Elettricità (Sade) aveva costruito a ridosso dei paesi di Erto e Casso, nella valle giusto di fronte a Longarone, nel Bellunese. La terra fece tracimare l’acqua e provocò un’onda immensa che travolse Longarone e la rase al suolo: una sciagura di dimensioni paragonabili all’attentato delle Torri Gemelle, quanto a morti e dispersi.
Eppure Tina Merlin, giornalista e militante del Pci, non amava essere chiamata Cassandra, perché, come racconta il figlio Toni Sirena in sua vece (lei è morta nel dicembre del 1991 dopo un anno di malattia), quel che faceva era niente più che il suo mestiere di corrispondente da Belluno per il quotidiano comunista. Bellunese di origini (era nata a Trichiana nel ’26), aveva partecipato alla resistenza su quelle stesse montagne e riportava nei suoi articoli ciò che lassù, nelle valli, e a Venezia, negli uffici della Sade, era cosa ben nota: tutti vedevano e tutti sapevano.
Era però solo lei a scrivere dei rischi che correvano gli abitanti delle montagne a causa di quell’enorme diga, e l’Unità l’unico giornale a pubblicare. Il Gazzettino, infatti, fondato proprio da un cadorino di Vodo nel 1887 e venduto dagli eredi a quel Giuseppe Volpi Conte di Misurata che della Sade era il fondatore e che dopo la guerra lo consegnò di fatto alla Dc, si limitava alle notizie ufficiali. Vani furono i tentativi del giovane cronista filosocialista Armando Gervasoni, corrispondente del Gazzettino da Belluno, di vedere pubblicati i suoi articoli, ricorda Sirena. Per i colleghi che invece sapevano e tacevano, la giornalista ha sempre detto di provare solidarietà umana, mai professionale.
La Merlin seguiva le vicende del bellunese fin dal ’51, quando aveva assunto l’ufficio di corrispondenza da Belluno, dopo aver vinto un concorso per un racconto proprio su l’Unità, e descriveva nei suoi pezzi come il progresso tecnologico importato dalla pianura tormentasse gli abitanti delle montagne: espropri, lesioni degli abitati, risarcimenti mai ottenuti o di poche lire.
L’avversione delle popolazioni nei confronti della Sade, spiega Toni Sirena, aveva radici lontane: il Podestà di Belluno negli anni quaranta già lamentava l’impoverimento d’acqua cui andava soggetto il territorio per le derivazioni del Piave iniziate i primi del secolo, che ne avevano ridotto la portata fino a dimezzarla con l’ampliamento delle concessioni nel 1922. Attraverso il lago di Santa Croce l’acqua veniva portata alle centrali di pianura, perché il progresso ha fame di energia: sono gli anni in cui nasce, ad esempio, il polo industriale di Porto Marghera, sempre a firma di Volpi.
Così nel ’56 la Merlin racconta di come, a sette anni dalla costruzione del lago artificiale tra Pieve di Cadore e Domegge, l’abitato di Vallesella veda le sue case fessurarsi, l’unica piazza infossarsi in una buca, perché il mancato apporto d’acqua del sottosuolo lascia vuote le gessose caverne sotterranee che quindi cedono. E la Sade rabbercia case e strade in economia “per non rendersi inadempiente e mettersi le spalle al sicuro di fronte all’ordinanza del ministero” scrive la Merlin, ma è solo “fumo negli occhi degli abitanti”: “impera soltanto la Sade, cioè la legge del più forte”.
Sono parole che non possono far piacere ai funzionari della Società Elettrica, ma è l’articolo di tre anni più tardi che ha come oggetto proprio la diga del Vajont (“La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono”) a costarle la messa sotto processo per direttissima con l’accusa di “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, su segnalazione dei Carabinieri di Erto e Casso. Dalle colonne dell’Unità del 5 maggio 1959 la Merlin fa infatti sapere che i montanari si sentono minacciati da “un grave pericolo per l’esistenza del paese [di Erto], a ridosso del quale si sta costruendo un bacino artificiale di 150 milioni di metri cubi di acqua che un domani, erodendo il terreno di natura franosa, potrebbero far sprofondare le case nel lago”.
Viene assolta il 30 novembre del 1960 dal tribunale di Milano, perché “il fatto non costituisce reato”: “nell’articolo in questione” scrive la commissione giudicante nella sentenza “non si ritrovano notizie né false, né esagerate, né tendenziose, dato che l’autore si è limitato ad esercitare il riconosciuto diritto di cronaca […] e a riportare uno stato d’animo di preoccupazione e di ansia largamente diffuso fra gli abitanti di Erto e che trova la sua giustificazione nelle circostanze”. Qualche settimana prima dell’ultima udienza, infatti, come la Merlin stessa ha scritto e come gli Ertani sono andati a testimoniare in aula portando a sostegno diverse fotografie, “un’enorme frana è precipitata entro il lago, staccandosi dai terreni sulla sponda sinistra in località Toc, poco più in su della grande diga del Vajont”. "Anni dopo il presidente della commissione giudicante, Angelo Salvini, padre dell’attuale giudice Salvini di Milano, ebbe a rincuorarsi di averla assolta, fa sapere Toni Sirena, a maggior ragione visti gli eventi che sono poi seguiti".
Non amava sentirsi una Cassandra Tina Merlin, eppure la Storia così l’ha voluta, perché in ogni tragedia umana, come ci insegnano gli antichi, c’è chi non viene ascoltato, o non viene compreso oppure ancora è volutamente messo a tacere. I giorni successivi alla sciagura, quando tutti i giornali avevano – a quel punto sì- il Vajont in prima pagina, rilasciò un’intervista alla televisione francese, che fu messa in quarantena per solidarietà col governo italiano, quindi trasmessa un’unica volta, quando i media francesi gridarono alla censura, e recuperata con fatica in anni recenti all’Istituto Nazionale Audiovisivi di Parigi.
Persino i suoi libri trovarono tardi una casa editrice: Sulla pelle viva in cui riscostruisce le vicende del Vajont, viene pubblicato solo nel 1983 da La Pietra di Milano (poi da Il Cardo di Venezia e l’edizione attuale è della casa editrice veronese Cierre); lo stesso Pansa si rammarica, nella prefazione all’edizione del 1993, di averle tenuto “la sua porta sbarrata”. La tesi che la Merlin in quel volume sostiene, ossia che a causare la tragedia fu la corsa al collaudo della diga prima della completa nazionalizzazione della Sade che diveniva sotto il nascente governo di centrosinistra Enel, è stata di recente contestata da Edoardo Semenza, figlio del progettista Carlo Semenza, il quale morì prima di vedere la sua diga resistere alla frana ma causare ugualmente una strage (La Storia del Vajont, K-Flash edizioni, 2005). Anche La casa sulla Marteniga, il romanzo autobiografico in cui la giornalista traccia le sue radici montane e racconta la sua esperienza giovanile di staffetta partigiana nella brigata “7° Alpini”, vide la luce solo postumo, nel 1992 per Il Poligrafo di Padova, grazie agli sforzi di nientemeno che Mario Rigoni Stern.
Donna, partigiana, comunista, di grande bellezza (sfilò una volta anche come modella) non era la giornalista d’assalto aggressiva che il regista Martinelli fa interpretare a Laura Morante nel film “Vajont” del 2001, dice suo figlio, anche lui giornalista, che la ricorda pacata, dolce persino, ma sempre determinata a dire le cose come stanno, anche a costo di andar contro alle direttive del suo giornale e del partito, sia da Belluno (dove rimase fino al ’67), che dall’Ungheria (lavorò per la radio ungherese in lingua italiana) o da Vicenza, dove approda nel 1969, quindi da Milano e poi da Venezia.
Nel 1983, per esempio, si rifiuta – racconta Sirena - di ricevere la medaglia che la giunta di sinistra del comune di Longarone destina a tutti i giornalisti che hanno scritto del Vajont: quelli dell’ultim’ora, così come quelli che, passata la tempesta mediatica, del Vajont si erano dimenticati, o ancora chi ha scagionato, secondo lei ingiustamente, anche se solo con la penna, i responsabili (“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui” scriveva Buzzati). A raccontare del Vajont la Merlin ci resta ancora quattro anni e quel che scopre, con dolore, è che tra la sua gente non si è formata una coscienza, nemmeno di fronte alla sciagura, come non era accaduto prima, di fronte all’ingiustizia “Se guardo quella gente, se penso a come reagiscono, non capisco più. Parlano solo di soldi, vogliono solo soldi” dice la Tina Meriln del romanzo del giornalista Gervasoni.
Rabbia, dolore di fronte a quel che accade, attesa di quello che può accadere: Tina Merlin era un’idealista. “Va tutto in malora.[…] Quelli del governo non pensano più a queste cose” fa dire alla madre ne La casa sulla Marteniga “Ma ricordati che la terra è sempre la terra. Verrà il giorno che il resto non vi basterà più”. E a leggere queste parole oggi, sembra sì che la giornalista la dote di Cassandra, la capacità di vedere prima e al di là delle illusioni, l’avesse davvero.
Valentina Berengo