SOCIETÀ

Transgender e privacy, la dignità parte dalle aule

È un atteggiamento controverso quello degli italiani nei confronti della comunità LGBTQ (lesbica gay bisessuale transgender queer), secondo il rapporto Istat La popolazione omosessuale nella società italiana: una grande parte degli italiani è consapevole della discriminazione cui le persone omosessuali sono sottoposte, ed è convinta (80%) che ai transessuali sia riservato lo stigma peggiore. Il 73% degli intervistati condanna le discriminazioni sul luogo di lavoro e nell’affitto dell’abitazione ma, nonostante ciò, quasi il 25% delle persone arriva a giustificare un tale comportamento, e il 30% non vorrebbe avere transessuali come vicini di casa, tanto meno come insegnanti dei propri figli (65%). Se da una parte, dunque, la società sembra ispirata da ideali antiomofobi, dall’altra stenta a metterli in pratica.

I luoghi d’elezione della mancata buona prassi, secondo l’Istat, sono quelli di lavoro e di studio, dove l’interazione con le persone è diretta e il confronto con l’altro si fa pressante e necessario. In Italia, uno studente universitario transgender, che abbia un aspetto somatico diverso da quello segnalato nel proprio documento di identità, si troverà a disagio all’appello d’esame, in mensa, a colloquio con docenti e compagni di studio; per vedere tutelato il proprio diritto alla riservatezza, dovrà quindi esporsi personalmente.

Questo non accade, almeno in parte, all’università di Torino, che già dal 2002 offre l’opportunità di indicare nei documenti universitari il nome e la foto che più si addicono all’aspetto dello studente. Il caso di Torino, segnalato come esempio positivo nel rapporto Human Rights and Gender Identity del commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani Thomas Hammarberg, è stato seguito, alcuni anni dopo, da altre università italiane: al momento, anche il politecnico di Torino, l’università di Bologna e l’università Ca’ Foscari di Venezia adottano uno strumento simile per facilitare l’inserimento degli studenti transgender. L’università di Padova, recentemente sollecitata dai rappresentanti degli studenti a studiare una soluzione che eviti la logica dell’intervento “caso per caso”, è all’inizio del lavoro in quella direzione.In Italia sono dunque poche università ad aprire la strada all’affermazione dei diritti dei transgender, primo fra tutti quello ad una educazione; non a caso questo succede, sembra il caso di dirlo, in un paese che ancora non è in grado di approvare una legge contro l’omofobia.

Il percorso di autoaffermazione, sia psicologica che fisica, di una persona transgender è lungo e doloroso; iniziato spesso nell’infanzia o nell’adolescenza, porta quasi inevitabilmente  alla necessità di un riconoscimento legale della propria persona. In Italia per chiedere la registrazione su documenti ufficiali di un nome e un sesso diverso da quelli registrati alla nascita, è necessario passare attraverso tribunali, studi medici e psicologici, farmacie e, infine, la sala operatoria. Solo una volta che la persona abbia chirurgicamente assunto i tratti fisici caratterizzanti il nuovo sesso, può vedere affermato il proprio diritto ad essere riconosciuta anche dallo Stato. Poiché l’intervento chirurgico è possibile solo a partire dalla maggiore età, a volte l’inizio del percorso di “transizione” coincide con l’entrata del giovane nel mondo accademico. Oppure no, perché il timore di vivere nell’eterno bisogno di spiegare in pubblico e ripetutamente chi si è e perché è un motivo che a volte spinge a non iscriversi nemmeno all’università, o a lasciare gli studi precocemente.

C’è invece chi all’estero punta anche sul recruiting di giovani appartenenti alla comunità LGBTQ per rinsaldare il prestigio della propria istituzione universitaria. Negli Stati Uniti l’apertura e il sostegno a qualunque identità di genere fanno parte della mission di molti atenei, che ormai diffusamente si servono dell’espressione gender invece che sex nei documenti ufficiali, obbedendo a ferrei regolamenti  antidiscriminatori. Accade di frequente che le università offrano bagni, spogliatoi e dormitori gender-inclusive; adottino strumenti diversificati per coloro che, in transizione, non abbiano ancora cambiato il proprio nome legalmente, o per coloro che, già “transizionati”, chiedano il cambiamento dei propri dati nei certificati accademici già guadagnati. Molti college hanno centri di sostegno e accompagnamento LGBT (le università dell’Iowa e del Michigan Ann Arbor fin dai primissimi anni Settanta), e includono nell’assicurazione medica studentesca  la terapia ormonale e l’operazione chirurgica per cambiare sesso. La situazione statunitense si inserisce in un contesto normativo avanzato a livello nazionale e federale, che anche in Europa trova condivisione.

Secondo il report della Commissione Europea Trans and intersex people. Discrimination on the grounds of sex, gender identity and gender expression sono Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Belgio, Spagna, Norvegia e Portogallo i paesi europei dotati di una legislazione sufficiente a consentire il rispetto della dignità transgender. La situazione dell’Italia agli occhi dei commissari europei appare desolante: in una scala da -12 a 30, il nostro paese compare nella Rainbow Map al livello 2, al pari della Lituania e seguito da Georgia, Lettonia, Bielorussia, Russia, Turchia, Armenia, Ucraina. In Italia la comunità transgender teme a dichiararsi perfino nell’anonimato delle statistiche, fornendo all’Istat una percentuale anomala e incredibilmente bassa (0,1%); conquistare il diritto alla riservatezza, nel nostro paese, sembra una premessa necessaria per poter affermare la propria dignità di persone.

Chiara Mezzalira

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