SOCIETÀ

Un papa diverso, un'Europa sempre uguale?

Oscurata da una notizia forse più importante – la fumata bianca per papa Francesco -, è passata sotto silenzio la notizia che è arrivata nello stesso giorno dal Parlamento europeo: la prima fumata nera nei confronti delle decisioni del Consiglio europeo, con la bocciatura della proposta di  bilancio formulata da quest’ultimo per gli anni che andranno dal 2014 al 2020. Non scommettiamo che, in assenza della nomina della nuova guida della Chiesa cattolica, i fatti di Bruxelles avrebbero preso il sopravvento, sulle nostre prime pagine e nei nostri tg: da sempre l’Unione europea è considerata questione “fredda” e con scarso appeal, tanto che l’editor di un’importante casa editrice di saggistica raccomandava qualche tempo fa di non mettere assolutamente la parola “Europa” in un titolo, pena l’insuccesso sicuro alla cassa delle librerie. Eppure, nel voto del 13 marzo al Parlamento europeo ci sono tutti gli ingredienti per uno scontro “caldo”, e parecchi motivi per andare in libreria  e accaparrarsi un po’ di istruzioni per l’uso, atte a decifrare la dinamica degli eventi e la posta in gioco. 

Riepilogando, in breve: usando i nuovi poteri attribuitigli dal Trattato di Lisbona, il Parlamento a larghissima maggioranza ha bocciato il bilancio comunitario, sul quale qualche settimana fa i capi di governo dei 27 paesi membri dell’Unione avevano raggiunto un accordo. Si usa scrivere, di solito, “compromesso al ribasso”, ma stavolta la formula è letterale: è stato abbassato, rispetto al periodo precedente, il budget disponibile per le casse comunitarie (da 994 a 960 miliardi), e la distanza tra “impegni di spesa” (a 960 miliardi, per l’appunto) e “impegni di pagamento” (a quota 908) è divenuta abbastanza consistente, che è come dire “tra il dire e il fare”. Una vittoria politica per quei paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania e al suo asse del Nord, che non vogliono che i “ricchi” sborsino un euro in più per aggiustare le cose in casa dei “poveri”, vecchi e nuovi. Il tutto, su una somma complessiva davvero ridicola: l’1% del prodotto interno lordo europeo. Come dire: la costruzione europea, votata all’unificazione e a parole al federalismo, mette in comune solo l’1% delle proprie risorse. O, almeno, questo hanno deciso i suoi capi di governo, e questo ha recepito la Commissione, in coerenza con la linea di politica economica incarnata da tutto il processo costituente europeo. Una linea che blocca l’espansione di un bilancio federale (anzi, ridimensiona il poco che c’è), e allo stesso tempo costringe in una gabbia di ferro anche i bilanci nazionali. 

È la filosofia che guida il cosiddetto Fiscal Compact, il “Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance”, ribattezzato come “Trattato per l’austerità perpetua” da un gruppo di economisti francesi che si definiscono “atterrés”: sgomenti, e che hanno proposto due pamphlet di rapida divulgazione, entrambi disponibili in traduzione italiana e anche come ebook. Nel primo, “Finanza da legare”, proponevano le misure da prendere per fare in modo che non siano i mercati speculativi, con l’arbitraggio tra i debiti sovrani, a decidere il futuro di governi e paesi. Nel secondo e più recente, “Cosa salverà l’Europa, prendono invece di mira le regole nelle quali la politica europea si è imbrigliata: l’inserimento del pareggio di bilancio nelle Costituzioni, insieme all’impegno, sempre tradotto in norme cogenti, a una progressiva e automatica riduzione del rapporto tra debito e Pil. Delle conseguenze negative dell’austerità sulla crescita si dice e scrive continuamente, e di recente in più d’una occasione anche il Fmi ha fatto autocritica, ammettendo di aver fatto un errore concettuale nel sottostimarle. 

Ma quel che impressiona, nella ricostruzione degli economisti atterrés, sono le conseguenze giuridiche delle scelte europee: la pretesa di portare, pari pari, una teoria economica dai libri alla normatività cogente della legge. Il pareggio di bilancio può ben essere un obiettivo politico: ma imporlo a tutti inserendolo in Costituzione, si legge nel pamphlet, è come scrivere una legge “che prescriva agli uomini calzature numero 42 e alle donne il 40”. Ignorando le differenze della realtà. Non solo: la traduzione di ipotesi economiche in leggi positive è spinta, fino a dettare anche le regole di calcolo dei deficit. Non è infatti neutrale la scelta fra le diverse ipotesi che si fanno, per esempio, per definire quanta parte del deficit è strutturale e quanta è da ricondurre al ciclo economico. Problemi su cui gli economisti dibattono e  ricercano, con diverse scuole di pensiero. Ma l’assetto costituente europeo ne ha scelto solo una, quella più vicina alla vecchia cara massima liberista del laissez faire, riveduta e aggiornata all’oggi.

C’è un motivo, scrivono gli atterrés, per tutta questa costruzione giuridica: trattandosi di scelte che portano a decisioni impopolari, si cerca di renderle automatiche, sottraendole alla discrezionalità – ovvero alla decisione politica - di chi poi deve rispondere al suo elettorato scontento. Come i deputati del parlamento europeo, che tra un anno e mezzo dovranno andare a difendere l’Europa davanti ai loro concittadini provati dalla più grave crisi del continente unificato. E che due giorni fa hanno dato un primo segnale al riguardo.

Roberta Carlini

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