SCIENZA E RICERCA
L'allegria è una questione di sonno
Ugo Tognazzi durante le riprese del film "Il gatto" di Luigi Comencini. Foto: Mauro Galligani/contrasto
Dormire poche ore a notte ci rende tristi. Un gruppo di ricerca della John Hopkins Medical School ha concluso che ridurre il sonno diminuisce in maniera significativa la capacità di “pensare positivo”. I ricercatori guidati dal professor Patrick Finan hanno somministrato a 64 soggetti un test standard per la valutazione dell’umore, confrontando i risultati ottenuti da persone sottoposte ad un regime di “sveglia forzata” con quelli totalizzati da persone che riposavano e dormivano normalmente. Lo studio ha rilevato una diminuzione del 31% del livello di allegria in coloro che fossero stati sottoposti al primo regime rispetto ai volontari ben riposati, dopo appena due notti consecutive di osservazione.
Non è una semplice questione di allegria. In realtà gli effetti negativi da carenza di sonno risultano essere molto pesanti e vari: debole memorizzazione, aumento della pressione arteriosa, abbassamento delle difese immunitarie. Dormire deve essere considerata consapevolmente una funzione vitale alla stregua di respirare, bere e mangiare. Anche se, per secoli, abbiamo sostenuto il contrario. “Abbiamo pensato al sonno come una mera sospensione di attività, uno stato passivo di perdita di consapevolezza” ricordano Steven W. Lockley e Russell G. Foster nel loro “ Sleep. A very short introduction”, pubblicato da Oxford University Press nel 2012. Margaret Thatcher, la lady di ferro, amava dire che il sonno fosse “buono solo per i fannulloni”. Come ci ha raccontato James Maas nel suo bestseller del 1997 “Power sleep”, già un secolo prima Thomas Edison sosteneva: “dormire è uno spreco di tempo criminale”. Non è un’idea della modernità: Leonardo da Vinci non si permetteva più di tre ore di riposo a notte. Non è nemmeno un vizio da primi ministri, brillanti inventori o titani poliedrici delle scienze. La saggezza popolare, che da un lato ha riconosciuto gli effetti della mancanza di ossigeno, della disidratazione e della carenza di cibo, dall’altro ha trascurato le conseguenze deleterie che patisce un cervello privato del sonno ristoratore. Eppure ogni animale, dall’elefante alla formica, ogni forma vivente, dall’eucariota pluricellulare alla singola cellula, va incontro a fasi di intensa attività seguite da altre di inerme riposo. Perfino le operose api si spostano in particolari celle dell’alveare e, per delle mezzore, abbassano le antenne, si rannicchiano avvicinando la parte superiore del corpo a quella inferiore per recuperare le energie spese nella frenetica attività a cui si sono dedicate.
In realtà che uno stato più o meno prolungato di carenza di sonno abbia effetti dannosi per la salute, non dovrebbe risultare una novità .La ricerca scientifica dell’ultimo secolo ha fatto emergere, sia pure in maniera non sistematica, indizi che confermano questa ipotesi. Nel 1817, il dottor James Parkinson, descrivendo il tremore dei suoi pazienti, per la prima volta, nel “Saggio sulla patologia da tremore”, incluse un riferimento a profondi squilibri del sonno nei malati parkinsoniani. Una review pubblicata nel 1989 sulla rivista “Sleep” commentava gli effetti di nove studi effettuati su gruppi di topi di laboratorio a cui non era stato concesso un attimo di sonno. In un periodo compreso tra gli 11 e i 32 giorni le cavie murine morivano. La mortale sonnolenza era preceduta da danni alla pelle (ulcere ed ipercheratosi), perdita di pelo, aumento dall’80 al 100% dell’assunzione di cibo, accompagnato paradossalmente da un calo della massa corporea e squilibri ormonali (aumento della noriepinefrina nel sangue e diminuzione dei livelli plasmatici di tiroxina). Il neuroscienziato, prof. Russell Foster, docente di “Circadian cycle” all’università di Oxford, osserva che una diminuzione del sonno o un” banale” jet lag scatena comportamenti maniacali nei soggetti bipolari. Ricorda anche che i bevitori incalliti sviluppano insonnia, in una percentuale che va dal 40 al 70%. Nota inoltre che una persona in buona salute, se in media dorme quattro ore per notte, risponde al virus dell’influenza con un’efficacia pari alla metà di un suo coetaneo, nella stessa condizione, che riposi in media tra sette ore e mezza e otto a notte. Le statistiche, offrendoci un’ulteriore conferma, rilevano che il passaggio all’ora legale, con la fastidiosa perdita di un’ora di sonno, fa aumentare il numero degli incidenti stradali del 20%.
Dal punto di vista biochimico e anatomico, del sonno si sa ben poco. Nel maggio del 2002 il professor I. O. Ebrahim ha pubblicato, insieme ad altri ricercatori, un interessante articolo sul “Journal of the Royal Society of Medicine”. Il gruppo ha schematizzato in quattro agili pagine, dalla letteratura medica in materia, le strutture neuroanatomiche implicate nel ciclo sonno-veglia. Alla base del nostro cervello c’è una struttura primordiale, piccola come una nocciolina, che governa le emozioni, articola la memoria e rigenera i circuiti. Si tratta dell’ipotalamo, sede di un elevato numero di neuroni che producono orexina, la molecola radio – sveglia del nostro organismo. Ebrahim riporta il caso di doberman affetti da narcolessia e catalessi, con mutazione in Hcrtr-2 (il recettore dell’orexina). In sostanza gli animali, in pieno giorno, crollavano a terra, in preda a una sonnolenza incontrollabile. Altri, di punto in bianco, pur rimanendo svegli, erano momentaneamente paralizzati dal naso alla coda, incapaci di qualsiasi movimento. La somministrazione di Hcrt-1 (acronimo di orexina) riduceva significativamente entrambi gli stati. L’orexina, come una chiave nella toppa, apre la porta ai quadri di comando da cui dipendono il senso di appetito, il metabolismo e l’aumento della pressione arteriosa. Non sorprende quindi che l’abbassamento della glicemia prodotto dall’insulina risulti ridotto in pazienti affetti da insonnia (4-5 ore di sonno per notte), predisponendoli a un maggior rischio di diabete. Chi dorme poco ha, nel proprio sangue, una maggior quantità dell’ormone ghrelina, che rende più affamati. La carenza di sonno è associata con l’ipertensione, con un aumento della calcificazione delle arterie, con l’instaurarsi di processi infiammatori a livello vascolare (aumenta il rilascio di citochine, sostanze che allertano il nostro sistema immunitario, da parte dell’endotelio). Tutti questi fattori contribuiscono al rischio di malattie cardiovascolari e di infarto.
Le cellule del nostro sistema nervoso ci evitano guai del genere. L’ipotalamo, in particolar modo una sua regione specifica (il nucleo preottico ventrolaterale), agita un mare di sostanze chimiche che regolano il ciclo di veglia-sonno: istamina, dopamina, noradrenalina, serotonina, acetilcolina, tutte sotto il raffinato controllo dell’orexina. Delle prime il nostro cervello è imbevuto. Compito del nucleo preottico ventrolaterale è inibire i neuroni che le secernono, bloccando a monte la secrezione di orexina da parte dell’ipotalamo. Ciò permette al nostro cervello, auspicabilmente per almeno sette ore, di ridurre il battito cardiaco, rallentare il respiro, rilassare i muscoli volontari, consolidare le memorie più preziose della giornata. In sintesi, l’organismo si rigenera. Non potremmo fare a meno di questo cocktail molecolare. Ad esempio una scarsa quantità di dopamina in circolo, predispone alla depressione. L’assenza di una striscia di neuroni dall’aspetto scuro (la substantia nigra), pigmentata dall’alta concentrazione di dopamina, è un segno istologico del Parkinson. La morte delle cellule che producono quelle molecole è alla base di numerose sindromi neurodegenerative, tra cui l’Alzheimer.
Come nell’Enrico IV di Shakespeare, insomma, dovremmo invocare il sonno quale cura più dolce che la natura ci possa offrire. Non solo la qualità dell’umore di ogni giornata, ma la nostra salute psichica e fisica brama il conforto rinfrescante che il sonno ci dona. Sarà anche vero che chi dorme non piglia pesci, ma per vivere bene bisogna dormire tra due guanciali.
Tommaso Vezzaro