SOCIETÀ

A 10 anni dalla rivoluzione dei Gelsomini, la Tunisia torna a protestare in piazza

Una risposta dura, violenta, come sempre più frequentemente sta accadendo in Tunisia. Manifestanti, soprattutto studenti universitari, ma anche minorenni, picchiati senza pietà e portati via dalla polizia tunisina che ha ricevuto un mandato chiaro: stroncare la sommossa. Togliere voce a quella enorme folla che da tre settimane, dieci anni dopo l’insorgere della Jasmine Revolution, la Rivoluzione dei Gelsomini che diede il via, nel 2011, alla stagione delle “Primavere arabe” in molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, è tornata ad appropriarsi delle piazze del Paese, e non soltanto a Tunisi. Una rivolta nata di slancio per ribellarsi contro i comportamenti della polizia: l’arroganza, la violenza, la sistematica intimidazione. Gli abusi segnalati e sempre negati. Le torture denunciate dai familiari dei detenuti. Da lì alla piazza il passo è stato breve: e nelle istanze dei dimostranti entrano anche le richieste di riforme e lavoro, per denunciare i clientelismi, le aperte corruzioni, le disuguaglianze sociali e le condizioni economiche rese ancor più drammatiche dalla pandemia

Ma soprattutto per gridare che quel modello di democrazia avviato proprio dieci anni fa con la cacciata del dittatore Ben Alì, e da subito considerato una punta d’eccellenza nel mondo arabo, sembra ormai tornato a scivolare sul piano inclinato che porta a una pericolosissima restrizione dei diritti. E lo stato di polizia imposto dal governo ne è la più evidente delle riprove. Pestaggi di massa, arresti di massa (compresi i minorenni), senza alcun mandato, senza alcun diritto riconosciuto ai fermati che spesso non possono nemmeno contare sull’appoggio di un legale, costretti chissà dove, chissà per quanto e in quali condizioni. Human Right Watch ha raccolto la testimonianza di uno degli studenti arrestati (soltanto per aver gridato un insulto a un agente di polizia), che ha raccontato di essere stato tenuto tre notti al centro di detenzione di Bouchoucha, in cella con altri ottanta detenuti, costretti a dormire in terra, senza potersi nemmeno lavare, senza alcuna protezione (né mascherine, né distanziamento) per difendersi dal contagio da Covid-19. 

Lo scontro aperto tra premier e Presidente della Tunisia

Una crisi sociale che s’intreccia a un’intricata emergenza politica, ormai a un passo dalla frattura. Dallo scorso settembre alla guida del governo c’è Hichem Mechichi, ex ministro dell’Interno, che aveva ottenuto la fiducia presentando una squadra costituita principalmente da tecnici (funzionari, accademici e personalità scelte nelle principali aziende private). «Un esecutivo del lavoro e dell'efficienza», così Mechichi l’aveva presentato, «che cercherà soluzioni non convenzionali e innovative per fare uscire la Tunisia dalla crisi». Un governo che aveva ottenuto i voti di entrambi i principali partiti tunisini: Ennahda (partito islamico conservatore) e Qalb Tounes (Cuore di Tunisia), il cui fondatore, Nabil Karoui, presidente del canale televisivo Nessma ed ex candidato alle elezioni presidenziali tunisine del 2019, sta scontando in carcere una condanna per riciclaggio di denaro ed evasione fiscale. A metà gennaio, all’insorgere delle prime manifestazioni, il premier Mechichi, nel tentativo di placare le proteste, ha proposto un mega rimpasto, approvato dal Parlamento, cambiando la guida di ben 11 ministeri, a partire da quello della Salute (sarebbe il quarto cambio di ministro da febbraio dello scorso anno), della Giustizia e dell’Interno. Ma a bloccare l’operazione è lo stesso presidente della Tunisia, Kais Saied (che della lotta alla corruzione e della promozione dell’etica nella politica ha fatto la sua bandiera). Oltre a criticare l’assenza di donne nell’esecutivo, Saied si è da subito dichiarato fermamente contrario alle nomine di 4 dei nuovi ministri scelti (della Salute, dell’Energia, del Lavoro e dello Sport), uno perché sospettato di corruzione, gli altri perché in palese conflitto d’interessi nel ricoprire quei ruoli. Perciò non ha ancora fissato la data per il giuramento dei nuovi ministri: non vuole che giurino, non vuole che entrino a far parte del governo. Perché il passaggio è sì formale, ma anche sostanziale: senza giuramento i nuovi ministri non possono, Costituzione alla mano, entrare nelle loro funzioni. 

Venerdì scorso il premier Mechichi, irritato per il ritardo della cerimonia, ha annunciato di aver inviato una lettera al Presidente Saied: «La situazione economica e sanitaria del Paese non può sostenere un ulteriore ritardo», ha dichiarato nel tentativo di rompere lo stallo. Tutto inutile (anche perché, secondo fonti presidenziali, nella missiva c’era un errore di forma). E poche ore fa il governo si è rivolto direttamente al Tribunale amministrativo per chiedere una formale pronuncia sulla mancata convocazione del giuramento da parte del Presidente. Tutti segnali che fanno intuire come il braccio di ferro istituzionale possa davvero risolversi con uno sbocco traumaticoin un senso o nell’altro. Da un lato il Parlamento, o comunque la coalizione che sostiene il premier, potrebbe tentare di mettere in stato d’accusa e perciò rimuovere il Presidente tunisino Saied. Che a sua volta, forte anche del sostegno popolare raccolto non soltanto in queste ultime settimane (alle elezioni del 2019 venne eletto con il 72% dei voti), potrebbe tentare la mossa di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. L’alternativa, sempre più stretta, sempre meno probabile, è la mediazione, in un gioco di equilibri ancora tutto da costruire. Ma in questo spazio s’inserisce la presa di posizione della potentissima Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT), il principale sindacato di Tunisia, quasi un milione di iscritti, che si è di fatto schierato al fianco del Presidente della Repubblica. «Deve avvenire una concessione», ha dichiarato venerdì scorso Noureddine Taboubi, capo dell’UGTT. «Chiedo cortesemente ai ministri proposti in controversia di rinunciare ai loro incarichi per l’interesse dello Stato». 

La svolta del sindacato e la manifestazione di sabato 6 febbraio

Il giorno successivo, sabato 6 febbraio, migliaia di persone si sono riunite a Tunisi per una delle più grandi manifestazioni dalla Rivoluzione dei Gelsomini a oggi. La polizia in tenuta antisommossa ha bloccato l’accesso al centro città, sia ai manifestanti, sia alle auto in transito, disponendosi attorno a Avenue Habib Bourguiba, scenario quasi naturale delle manifestazioni di protesta. «Ho vissuto 10 anni in libertà, non sono disposto a perderla», ha dichiarato alla Reuters uno dei dimostranti. E poi slogan, canti, cartelli: contro le violenze della polizia, le politiche repressive, le crescenti restrizioni delle libertà. E contro la crescente influenza del partito islamista Ennahda. «Non accetteremo che la Tunisia diventi una caserma», hanno gridato i dimostranti. «Chiediamo al presidente Saied di intervenire e tutelare le libertà». Perché il timore vero, profondo, è che dieci anni siano passati invano. Che la direzione presa dalla giovane democrazia tunisina sia quella sbagliata. Che ancora moltissimo sarebbe da fare, almeno così la pensa la stragrande maggioranza dei dimostranti. Che non dimentica, come dimostra l’omaggio commosso in ricordo dell’attivista Chokri Belaïd, avvocato, leader della sinistra, ucciso proprio il 6 febbraio 2013, proprio mentre la Tunisia si scrollava di dosso la dittatura per impostare le sue radici democratiche, con tre colpi di pistola esplosi da un fanatico islamista. I mandanti, nonostante gli evidenti sospetti, non sono stati mai individuati. L’onda emotiva dopo l’omicidio politico spinse all’unione tra i partiti islamisti e laici proprio per evitare il dilagare delle violenze. Un sepolcro in memoria del martire Chokri Belaïd è stato inaugurato lunedì scorso, 8 febbraio, nei pressi del luogo dove venne ucciso, alla presenza dei suoi familiari e dei suoi sostenitori, ma senza traccia di rappresentanti del governo.

Le sofferenze dell’economia

Quindi una protesta a più strati, ragioni diverse che si sommano, che si affiancano, moltiplicando l’insofferenza, quasi spingendo i più giovani a manifestare, a reclamare i propri diritti, a difendere le conquiste, più teoriche che pratiche, fin qui ottenute. Contro una politica che non sa più rispondere alle esigenze della popolazione, che non riesce a porre un freno al dilagare della corruzione e del clientelismo, con una tendenza spiccata a reprimere, a stroncare, a recidere quelle fragilissime radici di democrazia. Perché i numeri dell’economia sono drammatici: in dieci anni il debito pubblico è più che raddoppiato (era il 40,7% nel 2010, oggi è all’84,5%). In aumento tutti i prezzi, anche dei generi di prima necessità: sempre negli ultimi dieci anni il dinaro tunisino ha perso il 45% del suo valore rispetto all’euro. E non c’è lavoro, soprattutto per i più giovani: il tasso di disoccupazione, che nel 2010 era al 23%, nell’ultimo trimestre del 2020 ha toccato quota 30%, con punte più alte nelle zone rurali. Ristagna il Pil, la produzione nazionale è ferma, aumentano le importazioni. La pandemia, come ovunque, ha affossato commercio e turismo, che per la Tunisia sono voci di fondamentale importanza. E chi può fuggequintuplicato nel 2020 il numero dei tunisini (circa 13mila) che hanno raggiunto l’Italia sfidando le traversate. Kais Mabrouk, docente franco-tunisino di telecomunicazioni in diverse università in Francia, Tunisia e Russia, in un editoriale apparso pochi giorni fa sul settimanale Jeune Afrique, ha scritto: «Nessuno può dire che dopo dieci anni la speranza scatenata dalla rivoluzione si sia concretizzata. Molti cittadini dicono di sentirsi come se stessero girando in tondo. Da un'elezione all'altra, in un rinnovato impegno civico, i tunisini si sono mobilitati in maniera massiccia per la democrazia, convinti ogni volta che finalmente ci sarebbe stata. Ma alla fine non si è registrato alcun risveglio politico. Peggio ancora, una certa élite politica sembra sempre più rifiutata dalla nazione, in assenza di risultati economici convincenti». 

Sull’orlo del caos

Dunque la piazza (nonostante il coprifuoco), le proteste, che spesso sfuggono al controllo: barricate erette in strada, pile di pneumatici incendiate, vetrine dei negozi infrante. «La crisi è reale» ha ammesso il premier Mechichi, «ma non possiamo accettare questo caos e questa violenza». Mentre la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale ha apertamente bollato i dimostranti come «vandali e ladri senza alcun intento di manifestazione o rimostranza alcuna», riferendosi ai saccheggi che hanno fatto da corollario ai vari cortei nei governatorati di Kasserine, Gafsa, Susa e Monastir. Mentre Amnesty International ha lanciato un appello esplicito: «Le forze di sicurezza tunisine devono immediatamente astenersi dall’utilizzare la forza inutile ed eccessiva per disperdere i manifestanti che sono scesi in piazza nella capitale e in diversi governatorati, contro l’emarginazione, la violenza della polizia, la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro». Sempre Amnesty ha citato filmati che mostrano agenti che picchiano e trascinano persone che avevano arrestato. Migliaia gli arresti in queste ultime settimane (soprattutto ragazzi tra i 15 e i 20 anni), come i feriti (molti alle gambe e al corpo, portando i segni dei lacrimogeni che la polizia gli ha sparati direttamente contro, non per disperdere, ma per colpire). Un manifestante tunisino, ferito durante gli scontri con la polizia a Sbeitla, un piccolo centro a tre ore dalla capitale, è poi morto in ospedale. Alle manifestazioni ha partecipato attivamente, esponendosi, anche un sindacato studentesco (L'Union générale des étudiants de Tunisie): 50 gli attivisti arrestati, 32 dei quali si trovano ancora in carcere.

Sia chiaro, la rivoluzione del 2011 ha prodotto molti risultati, soprattutto nella conquista di spazi culturali (una ormai consolidata libertà d’espressione, la libertà di critica, l’informazione senza censure) e in quelli religiosi (libertà di preghiera, come d’indossare o meno il velo). Conquiste innegabili. Ma la Tunisia è nuovamente di fronte a un bivio: di qua l’occasione per imprimere una svolta decisiva, un nuovo impulso verso la costruzione e il consolidamento di una nuova democrazia. Di là il ritorno al regime, all’uomo forte, alla contrazione definitiva degli spazi di libertà. 

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