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Perché parlare di salute nella Giornata mondiale della Terra? Semplice: perché dalla salute del pianeta, di animali e piante, dipende anche la nostra. Se il concetto può sembrare quasi banale agli addetti ai lavori, forse il nesso non è sempre così evidente in generale. Eppure alcuni eventi, causati in larga parte da attività di natura antropica, possono avere ricadute importanti sul nostro benessere psicofisico.
Prendiamo l’inquinamento atmosferico: è stato definito dall’Organizzazione mondiale della Sanità il principale fattore di rischio ambientale per la salute e l'Italia nel 2019 ha avuto il secondo più alto numero di morti attribuibili all'esposizione a PM2.5 nell'Unione Europea. Ma gli aspetti da considerare sono molti altri. Anche l’inquinamento acustico, per esempio, fa la sua parte: almeno una persona su cinque, sempre in Europa, è esposta a livelli di rumore dovuti a traffico stradale considerati dannosi, e il rapporto è ancora più elevato nelle città. I prodotti chimici immessi sul mercato nell’UE, che talora si riversano nelle acque (si è parlato molto di Pfas negli ultimi anni), sono decine di migliaia e molti di questi hanno un impatto negativo sull’essere umano e sull’ambiente. Lo stesso dicasi dei rifiuti e delle aree di bonifica, riconosciuti come una priorità ambientale e sanitaria. Ancora, il riscaldamento globale provoca nelle città “isole di calore” che hanno indotto l’Italia a dotarsi di un Piano nazionale per la prevenzione degli effetti del caldo sulla salute: è stato calcolato che almeno il 2-3% dei decessi registrati nel 2015 fosse attribuibile all’esposizione al calore.
Anche gli eventi meteorologici estremi dovuti ai cambiamenti climatici non sono privi di conseguenze: oltre a causare decessi, i disastri provocati da inondazioni, tempeste, cicloni, siccità nel 2018, secondo l'Internal Displacement Monitoring Centre (Usa), hanno costretto più di 17 milioni di persone nel mondo a fuggire dalle loro case. Fortemente influenzate dai cambiamenti climatici sono anche le zoonosi, cioè le malattie infettive trasmesse dagli animali all'uomo, causate da batteri, virus, parassiti o prioni.
Il Consiglio superiore di Sanità mette in evidenza il “rischio reale di riemersione di agenti precedentemente endemici (come le encefalopatie da zecche, la malattia di Lyme, la febbre mediterranea e la febbre del Nilo occidentale) o l’arrivo di malattie tropicali trasmissibili tramite vettore (come la Dengue, la Chikungunya, la Zika), nonché di malattie animali come la malattia della lingua blu e la malattia della pelle grumosa. In Italia, la Chikungunya ha causato recentemente focolai relativamente grandi in diverse aree”.
A fronte di questa situazione, nell’ambito della sesta conferenza interministeriale su ambiente e salute che ha avuto luogo a Ostrava nel 2017 sono state stabilite le sette priorità che l’Oms ritiene cruciali per l’Europa e che interessano gli aspetti sopra citati. La dichiarazione finale di Ostrava, che indica agli Stati membri la via per intraprendere azioni nazionali, sottolinea la necessità di allineare le politiche e le azioni per la salute e l’ambiente con l’Agenda 2030 e l’Accordo sul clima di Parigi del 2015. Più recentemente, nel 2019 l’Oms ha sviluppato una strategia globale su salute, ambiente e cambiamenti climatici.
Questa breve premessa, oltre a fornire un quadro generale, rende merito anche delle ragioni per cui la redazione de Il Bo Live nell’ambito della serie In Salute abbia deciso di dedicare un ciclo di servizi a queste tematiche. Nel primo di questi approfondiamo alcuni concetti chiave, alla base anche dell’attuale politica sanitaria, che definiscono la relazione tra ambiente e salute e che ritroveremo trasversalmente durante l’intero nostro percorso. Per parlarne ci siamo rivolti a Paolo Vineis, professore di epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e in Italia componente del Consiglio superiore di Sanità. Tra i suoi libri più recenti, Il capitale biologico (Codice Edizioni 2022), La salute del mondo (Feltrinelli 2021), Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica (Einaudi 2020).
Esposomica, un approccio nuovo alle esposizioni ambientali
Partiamo dalla basi. Come si definisce l’ambiente? E l’epidemiologia ambientale cosa studia? “Si tratta di una disciplina che ha radici molto lontane – esordisce Vineis –, più indaghiamo più troviamo nessi tra l'ambiente in cui viviamo, la nostra salute e l'insorgenza di malattie. Per un certo periodo, soprattutto intorno al 2000 e negli anni successivi, è stata posta molta enfasi sul genoma, quindi sulla suscettibilità genetica alle malattie. Tale enfasi si è poi ridimensionata, non perché lo studio del genoma non sia importante, ma perché ormai siamo consapevoli del fatto che la maggioranza delle malattie umane, direi intorno al 90%, è dovuta a cause ambientali, dove per ambiente si intende qualcosa di molto generale, e dunque anche i comportamenti (come l’abitudine al fumo o il consumo di alcol), ma non la genetica".
Da qui il concetto di “esposoma”, coniato da Christopher Wild in un articolo apparso su Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention nel 2005, che indica l’insieme delle esposizioni ambientali a cui è esposto l’essere umano dal concepimento fino alla morte. In una pubblicazione del 2012, Wild definisce tre macro-categorie a seconda del tipo di esposizione: l’esposoma interno comprende tutti i processi interni all’organismo, come il metabolismo, l’attività degli ormoni, della flora batterica, l’infiammazione, l’invecchiamento; l’esposoma esterno specifico si riferisce invece agli inquinanti ambientali, agli agenti infettivi, ai contaminanti chimici a cui è esposto un soggetto, ma anche al tipo di dieta che segue, a fattori legati allo stile di vita (i già citati fumo e alcol per esempio), all’occupazione; infine, l’esposoma esterno generale include le influenze sociali, economiche e psicologiche più ampie sull'individuo, come l’istruzione, la situazione economica, lo stress psicologico e mentale, l’ambiente urbano o rurale e il clima. Qui sono compresi i determinanti sociali della salute e le “cause delle cause”, scrive Wild. I tre domini si sovrappongono e si intrecciano – al punto che talvolta è difficile collocare una particolare esposizione in una categoria o in un’altra –, e insieme producono effetti sulla salute umana.
“Gran parte delle malattie – osserva Vineis – è legata all'ambiente e c’è dunque la necessità di investire risorse e tecnologie anche e soprattutto per lo studio dell'esposizione ambientale”. E l’esposomica, in questo senso, rappresenta un approccio innovativo.
Intervista completa a Paolo Vineis, professore di epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e componente del Consiglio superiore di Sanità. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
One Health e salute planetaria
Il benessere psicofisico dell’uomo è dunque strettamente interconnesso con la salute dell’intero ecosistema, piante e animali, secondo il concetto di One Health. L'idea che il benessere di un individuo sia direttamente collegato a quello della terra ha una lunga tradizione nelle società indigene e oggi il termine ha assunto un significato importante per la salute globale: nel 2010 è stato adottato da Oms, Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) e Organizzazione mondiale per la salute animale (Woha) per affrontare i rischi legati alle zoonosi e a malattie ad alto impatto. Nel 2021 le tre istituzioni insieme a Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) hanno condiviso e approvato una definizione del nuovo approccio e nel 2022 hanno lanciato il programma One Health Joint Plan of Action (2022–2026).
“La salute umana – spiega Vineis – è correlata a quella animale e del pianeta. Faccio un esempio. La nostra salute dipende dal microbioma, per esempio il microbioma intestinale, oppure i microbi che albergano il nostro sistema respiratorio, o che portiamo sulla pelle. Questo dipende a sua volta dalla nostra esposizione al microbioma esterno, che si trova nel suolo, nelle piante, e dall’alimentazione e dalle modalità con cui coltiviamo la verdura e la frutta che mangiamo. Cambiamenti nel microbioma del suolo, che derivano a loro volta dall'uso di sostanze chimiche e dalle modalità di coltivazione, condizionano i cambiamenti nel microbioma del nostro intestino e quindi l'insorgenza di determinate malattie".
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"Questo evidenzia un nesso piuttosto importante tra tutti gli elementi del pianeta. Ormai è noto che una delle fonti più importanti di gas serra, circa il 10-12%, sono i ruminanti in allevamento per la produzione di metano, ma anche per il consumo della terra, con minore assorbimento di CO2 da parte della vegetazione. È evidente la connessione stretta tra salute degli animali, salute umana, salute dei terreni che noi utilizziamo per coltivare”.
L’essere umano è sempre stato al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni mediche, One Health pone invece le persone in una relazione di interconnessione e interdipendenza con gli animali e l'ambiente. Le conseguenze di questo pensiero comportano un sottile ma rivoluzionario cambiamento di prospettiva, si legge su The Lancet: tutte le forme di vita sono uguali, e sono di uguale interesse. Questa comprensione è fondamentale per affrontare i problemi di salute più urgenti nell'interfaccia uomo-animale-ambiente.
Oltre al concetto di One Health è stato introdotto quello di Planetary Health (salute planetaria), apparso per la prima volta nel 2014 su The Lancet: l’anno successivo un consorzio di oltre 70 università, enti governativi, istituti di ricerca e altri partner ha fondato la Planetary Health Alliance. “Salvaguardare la salute del pianeta – sottolinea Vineis – significa porre attenzione ai cambiamenti climatici, ma anche alla perdita di biodiversità, che è prodotta dall'azione umana”. Gli allevamenti intensivi, per esempio, sono la principale causa di deforestazione. E questo ci si ritorce contro: “Alla perdita di biodiversità si associano maggiori probabilità di pandemie, minori probabilità di identificare molecole terapeutiche, dato che molte di queste in passato sono derivate dalle foreste tropicali, maggiore probabilità che si manifestino malattie resistenti agli agenti antimicrobici, agli antibiotici, e così via. Quindi c'è un insieme di effetti sulla salute reali o potenziali derivanti da tutti questi fenomeni planetari”.
Prevenzione e mitigazione, due facce della stessa medaglia
Il concetto di One Health è riconosciuto ufficialmente anche dalla Commissione Europea e dal ministero della Salute italiano. Su questa linea, il Piano nazionale della prevenzione 2020-2025 (Pnp) ribadisce la necessità di una visione integrata del rapporto uomo-animali-ecosistemi e definisce azioni di promozione della salute che si articolano su sei macroaree. Tra queste, la sezione dedicata ad ambiente, clima e salute prevede obiettivi in linea con le politiche nazionali in materia di clima e ambiente, in particolare con la Strategia Nazionale e il Piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (aggiornato rispetto alla versione del 2018 e in fase di approvazione). Come previsto dal Pnrr (Missione 6 - Salute), nel 2022 è stato istituito inoltre il Sistema nazionale prevenzione salute dai rischi ambientali e climatici, che adotta l’approccio integrato One Health nella sua evoluzione di Planetary Health.
A questo punto è importante sottolineare che le azioni di prevenzione adottate per garantire il benessere psico-fisico degli individui possono influire anche sulla mitigazione del cambiamento climatico (e viceversa): ne parla un documento curato dal Consiglio superiore di Sanità con il coordinamento di Paolo Vineis (Politica dei co-benefici sanitari della mitigazione del cambiamento climatico), pubblicato lo scorso dicembre.
Partiamo da qualche esempio. È ormai noto che la corretta alimentazione e l’attività fisica sono alla base di uno stile di vita sano: si potrebbe ottenere una riduzione fino al 30-40% dell’incidenza di malattie croniche come i tumori, il diabete, le malattie cardiovascolari, respiratorie e neurologiche, con politiche di promozione della mobilità attiva (a piedi o in bicicletta), volte a migliorare la dieta e la qualità dell’aria. E ciò, evidentemente, avrebbe una ricaduta anche sulla mitigazione dei cambiamenti climatici. Seguire un’alimentazione che favorisca un adeguato apporto di fibre e di proteine da fonti animali e vegetali, ma preferibilmente vegetali, che limiti gli zuccheri semplici e favorisca il consumo di frutta e verdura (come il modello mediterraneo) oltre ad avere effetti benefici sulla salute, potrebbe incidere più in generale sulla produzione di cibo di origine animale, di carni rosse in particolare, che come si è detto è una fonte importante di emissioni di gas serra.
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Si tratta di due esempi tra i vari posti in evidenza nel rapporto sopra citato che dunque suggerisce una serie di misure di prevenzione con un impatto diretto o indiretto anche sull’ambiente. “Investire nella prevenzione delle malattie croniche, in altre parole, tende a rafforzare la mitigazione del cambiamento climatico”.
E in questo ambito lo Stato, secondo Paolo Vineis, ha un ruolo chiave: “La prevenzione è fatta largamente anche di interventi da parte dello Stato, che consistono nella tassazione di cibi o di altre attività dannose per la salute, negli incentivi invece per gli alimenti o le attività con effetti benefici, e che si articolano in una serie di misure strutturali come la pianificazione e l'organizzazione stessa delle città”.
Anche l’urbanistica, infatti, dovrebbe essere ripensata in funzione della salute e del benessere delle persone, facilitando l'attività fisica, aumentando le aree verdi, riducendo le distanze per l'approvvigionamento di cibo e di altri beni e quindi diminuendo l'uso dell'automobile e aumentando i servizi pubblici. Di queste “nuove città” parla più nel dettaglio l’architetto Stefano Boeri, che ne è il teorico, nel documento del Consiglio superiore di Sanità sopra citato, sottolineando la necessità di cambiare alle radici la logica della vita urbana.
“Noi che ci occupiamo di sanità pubblica – ribadisce Paolo Vineis – riteniamo sia fondamentale l'intervento dello Stato. È tramontata ormai l’idea liberale secondo cui è responsabilità dell'individuo pensare alla propria salute e orientare i propri comportamenti in senso benefico. Siamo nell'era della globalizzazione, in cui i cibi che mangiamo provengono da lontano, come pure le malattie (basti pensare a Covid-19), quindi non è pensabile semplicemente rivolgersi al singolo cittadino in quanto consumatore in un contesto di economia liberale: servono interventi più pianificati, più sistematici e strutturali da parte dello Stato”.
Determinanti sociali e ambientali della salute
Il tema della prevenzione intreccia anche aspetti di tipo socioeconomico. Le disuguaglianze nel mondo, scriveva Pietro Greco su questo giornale recensendo proprio una delle pubblicazioni di Vineis, hanno anche aspetti sanitari: il diritto alla salute non è uguale per tutti, perché i poveri vivono meno e peggio. In questo caso, prevenire significa rimuovere il più possibile gli ostacoli che impediscono il diritto al benessere. Queste considerazioni valgono anche per il tema che stiamo affrontando, poiché le emergenze ambientali e i disastri naturali hanno un impatto maggiore sulla salute delle persone più fragili ed economicamente svantaggiate.
Le persone di basso livello socio-economico sono spesso le più esposte ai fattori di rischio ambientali. Prendiamo l’inquinamento atmosferico: chi è meno abbiente, riporta The Lancet, vive in zone percorse da strade molto trafficate, vicino a centrali elettriche e impianti industriali, che espongono in misura maggiore agli inquinanti. A ciò si aggiunga che frequentemente abita in alloggi fatiscenti, in aree in cui mancano spazi verdi, negozi per l'acquisto di alimenti sani come frutta e verdura, e in cui l’accesso all’assistenza sanitaria è limitata. Le persone più povere, inoltre, hanno anche maggiori probabilità di svolgere lavori che comportano l’esposizione a vapori, polveri, gas ed esalazioni. Questi fattori estrinseci si sommano a quelli intrinseci, come l’età, le malattie preesistenti, le variazioni genetiche, l’abitudine al fumo, e determinano nel caso specifico la vulnerabilità di un individuo o di una popolazione all’inquinamento atmosferico.
Gli esempi possono essere anche altri. L’uragano Katrina abbattutosi su New Orleans nel 2005 ha causato più danni ai quartieri poveri della città, dove molte persone hanno perso casa e mezzi di sostentamento. Le stesse considerazioni si possono fare per le cosiddette isole di calore nelle città e per le ondate di freddo che pure colpiscono in misura maggiore i meno abbienti: si parla di povertà energetica (in questo caso) quando risulta difficile procurarsi servizi per il raffreddamento o riscaldamento delle proprie abitazioni.
“Ormai c’è un consenso totale – conclude Paolo Vineis – sul fatto che per affrontare la crisi ambientale, compreso il cambiamento climatico, dobbiamo partire da una lotta alla povertà e da una riduzione delle disuguaglianze sociali”.
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SPECIALE “AMBIENTE E SALUTE”
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