La vita sulla Terra dipende dagli organismi fotosintetici, che utilizzano la luce solare per fissare l’anidride carbonica dell’atmosfera in biomassa vegetale, rilasciando ossigeno. Circa la metà dell’ossigeno che respiriamo dipende dall’attività fotosintetica delle microalghe, organismi unicellulari che vivono in ambienti acquatici.
A seconda delle condizioni ambientali la luce solare può essere scarsa o abbondante. Nel primo caso l’organismo fotosintetico non riceve sufficiente energia per crescere, nel secondo l’energia è invece in eccesso e può portare a foto-danneggiamento e morte.
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova, in collaborazione con l’Università di Berkeley (California), nello studio dal titolo “Modulation of xanthophyll cycle impacts biomass productivity in the marine microalga Nannochloropsis” pubblicato su PNAS e coordinato da Giorgio Perin e Tomas Morosinotto del dipartimento di Biologia, ha dimostrato che è possibile migliorare la fotosintesi delle microalghe e la loro capacità di fissare la CO2 atmosferica per rendere la coltivazione più competitiva sul mercato e massimizzare la produzione di biomassa – da cui ricavare biocombustibile.
Professore, lei studia da sempre le microalghe?
Dopo la laurea magistrale in Biotecnologie Industriali qui a Padova, nel 2012, ho iniziato il dottorato; lì ho conosciuto il professor Tomas Morosinotto che aveva appena vinto un progetto in cui focalizzava gli sforzi di ricerca sulle microalghe e sull’utilizzo di biomassa vegetale alternativa alle piante come svolta per un’economia più sostenibile. Questo argomento mi ha interessato da subito e il dottorato mi è sembrato una buona idea per migliorare la mia formazione su un argomento che avesse un alto risvolto industriale.
È iniziato così il mio percorso di studi sulle microalghe del genere Nannochloropsis, che nel 2012 avevano iniziato ad emergere come organismi estremamente promettenti per applicazioni industriali.
A cosa servono, nello specifico, le microalghe?
All’inizio l’obiettivo della comunità scientifica europea era quello di utilizzarle per fare biodiesel e quindi si cercavano specie che accumulassero molti oli in modo tale da rappresentare una fonte alternativa e più efficiente a quelle attuali di biodiesel, cioè le piante. Rispetto ad altre specie, infatti, le microalghe accumulano moltissimi lipidi.
Fare biodiesel da una coltura agricola – come la colza – è possibile, ma sfruttare risorse come l’acqua dolce, i fertilizzanti e la terra agricola per fare biocombustibili non è molto intelligente nel lungo termine, in particolare se consideriamo che la popolazione mondiale aumenterà: è meglio conservare le risorse dell’agricoltura per produrre cibo.
Il focus quindi era cambiare la materia prima vegetale da cui ricavare il biodiesel: le alghe sono dei microrganismi che possono essere coltivati anche in terreni marginali o degradati e non nei terreni agricoli, che verrebbero in questo modo lasciati all’agricoltura.
C’è, dunque, anche questo vantaggio: la microalga è un microrganismo capace di crescere in acque reflue, acque di scarti industriali e civili, ma anche agricoli, ad alto contenuto di nutrienti, che le microalghe sono in grado di sottrarre per crescere, eseguendo anche la funzione di depurazione dell’acqua.
Un microrganismo versatile quindi, in linea con i problemi del cambiamento climatico?
È proprio così ed è molto più versatile delle piante! Una pianta, infatti, è composta da tessuto verde – che è quello che fa la fotosintesi clorofilliana e che determina la crescita – ma anche da tessuto non fotosintetico, ad esempio le radici: queste ultime sono parti di biomassa che richiedono energia per svilupparsi ma non portano contributo alla crescita. Le microalghe, al contrario, sono organismi unicellulari con cellule tutte fotosinteticamente attive, hanno una capacità di crescita molto maggiore rispetto delle piante, e quindi un’aumentata capacità di sequestro dell’anidride carbonica: diventano utili come meccanismo di cattura della CO2atmosferica e, di conseguenza, mitigano il cambiamento climatico.
Altri benefici?
Possono depurare le acque di scarto e immetterle nell’ambiente pulite, oppure usare la luce solare per catturare l’anidride carbonica atmosferica. Anche la biomassa prodotta dalle microalghe è estremamente versatile: oltre al biodiesel per i combustibili si possono ricavare anche gli Omega 3 o gli Omega 6, lipidi che vengono generalmente integrati nell’alimentazione umana attraverso delle pastiglie composte da oli di derivazione animale, ad esempio il pesce – il quale, ovviamente, recupera questi lipidi in natura dalle microalghe. Se noi andiamo a coltivarle e assumiamo un po’ della loro biomassa, possiamo rispondere al fabbisogno di Omega 3 e Omega 6. C’è quindi anche questa applicazione più alimentare della Nannochloropsis per la generazione di super food, attraverso cui è possibile ricavare aminoacidi, Omega 3 e 6, vitamine, pigmenti naturalmente antiossidanti: integrare la dieta con microalghe ha un beneficio per malattie cardiovascolari e infiammazioni.
Non solo è possibile utilizzarli per produrre biofertilizzanti e biostimolanti, ma anche in ambito farmaceutico o cosmetico: le microalghe sono delle cellule vegetali, in fin dei conti. Attualmente l’industria della cosmesi utilizza colture cellulari vegetali per produrre cosmetici, ad esempio acido ialuronico o composti a base biologica che, applicati sulla pelle, hanno tutti i benefici che conosciamo. La stessa cosa può essere fatta utilizzando le cellule delle microalghe.
Nella vostra ricerca avete indagato il nesso tra la luce solare e le microalghe?
Il fatto che la fotosintesi fosse un elemento limitante della crescita è una cosa che abbiamo ipotizzato nel corso degli anni insieme alla comunità scientifica; la coltivazione delle microalghe su larga scala richiede l’utilizzo di impianti fotobioreattori, che possono essere delle vasche aperte, esposte all’ambiente naturale, oppure dei tubi chiusi in cui la coltura liquida che contiene le microalghe viene fatta fluire e può essere esposta alla luce naturale o artificiale. In questi impianti l’alta densità è necessaria per mantenere alti valori di produttività di biomassa, ma il problema è che la luce che colpisce dall’esterno non arriva agli strati più interni della coltura, che rimangono al buio – e non crescono. Abbiamo iniziato, quindi, a lavorare sul miglioramento di alcune caratteristiche delle microalghe per addomesticare la specie in questione e renderla più ideale all’ambiente ad alta densità.
In che modo?
Per migliorare la distribuzione della luce nei fotobioreattori, la coltura viene mescolata: questo processo spinge le microalghe che popolano le regioni della coltura più interne a muoversi verso gli strati più esterni, dove la luce è in eccesso, e quelle che si trovano in quest’ultimi a raggiungere le regioni più interne, dove la luce è minore.
La velocità di mescolamento delle microalghe nei fotobioreattori, però, è maggiore della velocità del ciclo delle xantofille (violaxantina e zeaxantina), cioè il meccanismo di regolazione della fotosintesi che prevede la trasformazione reversibile tra due pigmenti ossigenati. La violaxantina promuove la cattura della luce ed è quindi favorita in condizioni di luce scarsa, mentre la zeaxantina promuove la dissipazione della luce in eccesso ed è quindi favorita in condizioni di luce abbondante.
Nelle microalghe che si muovono dall’esterno verso l’interno della coltura il ciclo delle xantofille non è sufficientemente veloce da convertire la zeaxantina a violaxantina e ciò spinge le microalghe a dissipare la poca luce ricevuta in queste regioni più interne, invece di utilizzarla per la crescita.
Dato che queste regioni rappresentano il volume maggiore della coltura di un fotobioreattore, questo fenomeno è una delle cause più importanti della ridotta produttività di biomassa che si osserva nei moderni impianti di coltivazione di microalghe su scala industriale.
L’esposizione agli eventi metereologici o semplicemente al ciclo giorno-notte ha un effetto sulla fotosintesi, sulla capacità di catturare la luce e di convertirla in biomassa: abbiamo iniziato quindi a lavorare anche su questi meccanismi biologici di regolazione della fotosintesi. Quando passa una nuvola, ad esempio, si riduce la quantità di luce e quando questa se ne va la quantità di luce aumenta di nuovo. In natura, questi cambiamenti di luce per il passaggio delle nuvole possono essere anche molto rapidi, così rapidi che il ciclo delle xantofille non è adattato per rispondere in modo ottimale, quindi significa che quando la nuvola se ne va, la pianta non è in grado di convertire la zeaxantina in violaxantina in modo sufficientemente rapido.
Qual è la soluzione?
Qualche anno fa, negli Stati Uniti è stato pubblicato un lavoro in cui la modifica genetica della velocità di attivazione e di disattivazione del ciclo delle xantofille portava ad ottenere delle piante – nello specifico quelle di tabacco e soia – che fossero più propense a rispondere a questi cambiamenti metereologici così repentini.
Per quanto riguarda le microalghe, grazie all’ingegneria genetica abbiamo accelerato la velocità di conversione della zeaxantina in violaxantina nella microalga Nannochloropsis e abbiamo dimostrato che questa strategia porta ad un aumento della produttività della biomassa. Il nostro lavoro dimostra che il ciclo delle xantofille delle microalghe è necessario al loro benessere anche durante la coltivazione industriale e che la velocità operativa che questo meccanismo di regolazione della fotosintesi ha evoluto in natura rappresenta un ottimo bersaglio per la domesticazione delle microalghe e renderle più produttive durante la crescita in fotobioreattore.