Dopo 13 giorni di caos e guerriglia nel Ceará, un piccolo stato del Nord Est del Brasile (capitale Fortaleza), la polizia militare ha sospeso lo sciopero che aveva indetto il 18 febbraio scorso (nonostante l’esplicito divieto contenuto nella Costituzione brasiliana, che prevede il carcere per il reato) per rivendicare aumenti salariali. Tredici giorni di violenza, con 195 morti dall’inizio della protesta, ma il bilancio è probabilmente più grave: erano 147 dopo appena 5 giorni, poi le autorità locali hanno deciso di non divulgare più i dati giornalieri sugli omicidi. L’ammutinamento di massa degli agenti di polizia ha messo in difficoltà il governatore del Ceará, Camilo Santana del Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, che in Brasile è all’opposizione), ma il gravissimo episodio locale si è presto trasformato in un caso nazionale che ha investito direttamente il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, attuale leader dell’estrema destra, che gode di ampio seguito e popolarità tra le forze dell’ordine, soprattutto da quando ha presentato una proposta di legge per depenalizzare i reati commessi dagli agenti in servizio e ottenere un’amnistia per i casi pendenti. In due parole: libertà di uccidere. Bolsonaro si è ben guardato, durante i tredici giorni della protesta, dal condannare quanto stava accadendo nel Ceará. E sono in molti a ritenere che il suo silenzio sia stato una legittimazione di fatto della protesta degli agenti, che di fatto indeboliva il ruolo del governatore Santana, suo avversario politico. Come dire: dove governa la sinistra è bene soffiare sul fuoco della violenza e della paura.
L’accordo dopo la grande paura
Fortaleza sta dunque, lentamente, tornando alla normalità dopo una sbornia di paura. Anche Sobral, un comune dell’interno, teatro di episodi di violenza soprattutto nei primi giorni di protesta, con agenti di polizia mascherati e armati che sono scesi in strada e, usando auto di servizio a sirene accese, hanno minacciato i commercianti costringendoli a chiudere i loro negozi. «Improvvisamente Sobral è diventata una città in guerra», aveva dichiarato il gestore di un bar a un giornalista di El Paìs. «Pensavamo fossero banditi, solo più tardi abbiamo capito che era la polizia stessa, quando abbiamo sentito le notizie alla radio». Un senatore del Partito Democratico Laburista, Cid Gomes (ex governatore dello stato e fratello del sindaco di Sobral), 56 anni, aveva deciso di intervenire: dopo aver incitato la popolazione a reagire contro la polizia, si era messo alla guida di un escavatore e aveva tentato di forzare il cancello della caserma dove gli agenti si erano asserragliati, ma era stato ferito con due colpi di pistola al petto (non è in gravi condizioni). Il ministro alla Cittadinanza del governo Bolsonaro, Onyx Lorenzoni, aveva commentato: «Colpi sparati per legittima difesa». L’episodio aveva ovviamente aggravato la crisi: tensione alle stelle, violenza fuori controllo, raid punitivi a opera di incappucciati, auto in fiamme, strade bloccate e un’impennata di omicidi come Ceará non aveva mai visto. Il governo nazionale, sollecitato dal governatore Santana, aveva inviato 2500 soldati nel tentativo di riportare l’ordine. Centinaia gli agenti fermati e identificati come responsabili della rivolta. «Non avevo mai visto in vita mia una caserma occupata in quel modo», aveva dichiarato pochi giorni fa il senatore del Partito Liberale Major Olimpio, che aveva fatto parte della delegazione di senatori che si sono recati a Ceará per trovare una via d'uscita dalla crisi. «Sono tutti incappucciati. È impossibile sapere quanti di loro sono poliziotti e se sono davvero poliziotti».
Il pretesto del salario e il rischio contagio
La svolta è arrivata domenica sera, quando la maggioranza degli agenti ha accettato l’ennesima proposta di accordo. Il braccio di ferro tra polizia e governatore del Ceará andava avanti in realtà dal dicembre scorso. Era il 5 dicembre quando agenti di polizia e dei vigili del fuoco minacciarono di paralizzare lo stato se non avessero ricevuto un aumento del salario, fermo a 3.200 Real, pari a circa 650 euro. Il governatore Santana aveva dapprima offerto un adeguamento a 4.200 Real (circa 850 euro), per poi arrivare a prometterne 4500 entro il 2022. E sembrava fosse questa la mossa decisiva, al punto che il suo governo, il 13 febbraio scorso, annunciava di aver concluso i negoziati con i rappresentanti della polizia militare. Ma un gruppo di loro si era messo di traverso, pretendendo che l’aumento fosse concesso immediatamente e, in assenza di risposte, annunciando lo sciopero per il 18 febbraio, sfidando platealmente la legge brasiliana. E il tavolo è saltato. Fino a domenica sera.
Attesa per il voto sull’amnistia ai militari (ma non per i rivoltosi)
L’accordo prevede che l’aumento salariale tenga conto delle proiezioni sull'inflazione per il 2021 e il 2022. Ma non è stato riconosciuto quello che per gli agenti, inizialmente, era il punto fermo di qualsiasi trattativa: la concessione dell’amnistia per i reati commessi nei giorni dello sciopero. Non l’avranno, come aveva invece chiesto il presidente Bolsonaro, senza mai schierarsi a favore, ma neanche contro, i rivoltosi. Il governatore di Ceará, Camilo Santana, era stato chiaro sul punto: «Altro che amnistia: la condanna è indispensabile in considerazione della gravità e del danno che tali movimenti, di natura illegittima, causano all'intera società di Ceará, in evidente disprezzo per l'ordine giuridico e costituzionale». L’ex ministro laburista Ciro Gomes aveva apertamente accusato Bolsonaro di sostenere i manifestanti più radicalizzati. Il progetto di legge sull’amnistia ai poliziotti sarà votato questa settimana dalla Camera dei Deputati. Il governatore Santana ha chiesto esplicitamente l’esclusione dell’amnistia in caso di sommossa. Mentre il presidente della Camera dei deputati, Rodrigo Maia, ha escluso la possibilità di votare progetti che concedano l’amnistia agli agenti di polizia di Creará. Tra le richieste dei poliziotti anche il miglioramento dell’assistenza sanitaria e un adeguato piano di edilizia per gli alloggi dei militari.
Il Ministro della Giustizia e della Pubblica Sicurezza, Sergio Moro, ha espresso la sua soddisfazione per il buon esito della trattativa: «Accolgo con favore la notizia della fine dello sciopero della polizia a Ceará. Il governo federale era presente, sin dall’inizio, e ha fatto tutto il possibile entro i limiti legali e il rispetto dell'autonomia dello Stato. Ha prevalso il buon senso, senza radicalismo. Complimenti a tutti». Restano però le duecento vittime di queste due settimane di terrore. E un paese che scricchiola nella sua tenuta economica. In altri 11 stati sono in corso trattative salariali con la polizia militare e in cinque sono già state organizzate manifestazioni, tra cui uno sciopero di 12 ore a Paraíba. La situazione economica del Brasile non aiuta: molti di questi stati hanno problemi di liquidità e pagano i dipendenti pubblici in ritardo o con stipendi incompleti.
Più armi per tutti. E la polizia non è mai responsabile
A proposito della libertà di uccidere che Bolsonaro vorrebbe regalare agli agenti di polizia: già oggi il Brasile è al primo posto nel mondo per morti da arma da fuoco. Tra gennaio e ottobre del 2019, come riporta Avvenire in un articolo pubblicato a fine dicembre, la polizia ha ucciso 1.546 persone nello Stato di Rio, in media cinque al giorno, un terzo del totale degli omicidi commessi in Brasile. La quasi totalità delle uccisioni è avvenuta all’interno delle favelas e sempre, ufficialmente, per “legittima difesa”, o almeno così riportano gli agenti nei loro rapporti. E circa 1200 vittime erano di colore, in un’età compresa tra i 14 e i 29 anni. Il presidente Bolsonaro è senz’altro responsabile di questa escalation di violenza. Anzitutto ha preteso, appena eletto, un allentamento della legislazione sul possesso delle armi da fuoco: gli adulti sopra i 25 anni possono acquistare fino a 4 armi, a condizione che abbiano un lavoro fisso, senza precedenti penali e con “una capacità tecnica e psicologica compatibile con l’uso delle armi”. Inoltre alcuni professionisti (avvocati, camionisti, politici) sono esentati dal provare la necessità del trasporto di un’arma. Il governo Bolsonaro ha anche proposto una serie di modifiche alle leggi sulla sicurezza pubblica. Nel testo si legge: “...sta agendo per autodifesa qualsiasi agente prevenga un’aggressione ingiusta e imminente in un conflitto armato o al rischio imminente di conflitto armato”. Il che renderebbe gli agenti immuni dall'azione penale: vale a dire libertà di uccidere chiunque per qualsiasi ragione, senza essere ritenuti responsabili. Secondo un recente studio dell’economista Daniel Cerqueira, dell’Ipea (Istituto di ricerca economica applicata), per ogni 1% in più di armi in circolazione è stato rilevato un aumento del 2% degli omicidi. Il quotidiano Folha de Sao Paulo ha diffuso i dati relativi al 2019: da gennaio a novembre dello scorso anno 70.800 nuove armi sono state registrate alla polizia, rispetto alle 47.600 del 2018, pari a un aumento del 48%.
È partito il saccheggio dell’Amazzonia
Intanto il presidente Bolsonaro si sta dedicando all’Amazzonia: non soltanto con la sua sistematica azione di deforestazione, ma anche con il nuovo progetto di legge appena presentato che prevede tra l’altro la costruzione, nei territori indigeni, di centrali idroelettriche, attività minerarie, estrazione di petrolio e gas. Viene prevista, inoltre, la possibilità di sviluppare l’attività agricola su vasta scala con l’impiego di semi transgenici. Le comunità indigene non avranno diritto di veto per quel che il Congresso autorizzerà sui loro territori. Survival International, organizzazione che tutela i diritti dei popoli indigeni nativi nel mondo, lancia un appello e una denuncia contro la politica imposta dal presidente brasiliano: «Jair Bolsonaro, controverso presidente di estrema destra del Brasile, sta promuovendo con tutte le sue forze il furto delle terre indigene e la loro apertura ad allevamenti e attività minerarie. Se dovesse riuscirci, con grande probabilità molti popoli verrebbero sterminati». In sintesi: abbattere il sistema di protezione dei popoli indigeni previsto dalla Costituzione brasiliana. Molte voci non soltanto locali, ma nel mondo cattolico, tra gli ambientalisti, si stanno alzando per contrastare questo piano.