CULTURA

Bruno Nicolè: un talento cristallizzato in un istante

Ci sono delle volte in cui sei seduto al pub, magari dopo l'asta del fantacalcio, e senza preavviso qualcuno chiede che fine ha fatto quel tal giocatore di calcio, quello che sembrava lanciato a razzo verso il pallone d'oro e poi è sparito dai radar (per esempio Diamanti o Gilardino, passando per quel Fabio Grosso per cui magari parlare di pallone d'oro era un azzardo, ma se nel 2006 il cielo era azzurro sopra Berlino sicuramente il merito era anche un po' suo).

Sono giocatori che ti rimangono nel cuore, perché magari hanno fatto vincere la tua squadra all'ultimo minuto in una partita indimenticabile, quando eri allo stadio con dieci gradi sotto zero, pioveva e sapevi che entro qualche ora ti avrebbero dato il daspo per abuso di tachipirina. Ma anche se l'acqua aveva superato molteplici strati tra cui il piumino e la canottiera di lana (che non avresti ammesso di indossare neppure sotto tortura) ne valeva la pena alla grande, perché la tua squadra aveva vinto. Scritto così sembra un po' da pazzi, ma per dirla con Sándor Márai "ogni vera passione è senza speranza, altrimenti non sarebbe una passione ma un semplice patto, un accordo ragionevole, uno scambio di banali interessi". Questa passione è riuscito a spiegarla solo Nick Hornby in Febbre a novanta, graziando tutti quei tifosi impenitenti che con le parole non se la cavano altrettanto bene, e che ora possono limitarsi a fare copia-incolla per far capire agli amici con gli occhi sgranati perché "ogni maledetta domenica" d'inverno rischiano di buscarsi la tisi.

Il 26 novembre il calcio di questi sentimentali ha perso un altro pezzo di storia: a Pordenone è morto il calciatore padovano Bruno Nicolè: un talento precoce in tutto, sia negli esordi che nel ritiro. Uno di quelli che a un certo punto sono spariti dal radar, uno dei nomi tirati in ballo con rimpianto al pub da avventori di una generazione precedente rispetto a Fabio Grosso. Del resto il bello del calcio è proprio questo: ognuno ha i suoi eroi, e Venditti può far convivere Pelè e Paolo Rossi in una stessa canzone.

Nicolè debuttò in serie A quando aveva solo 16 anni: era il 1956 e mentre nasceva Paolo Rossi lui giocava nel Padova di Nereo Rocco, la squadra della città in cui era nato. In quel campionato riuscì a segnare ben due gol in 16 gare: non male per un esordiente.

Le sue capacità vengono notate subito, e infatti l'anno dopo viene comprato dalla Juventus per 70 milioni e in breve diventa uno degli elementi chiave della formazione. Con lui la Signora vince tre campionati e due coppe Italia, e in 141 presenze Nicolè colleziona 47 gol, facendosi perdonare ampiamente quello che aveva segnato proprio contro la Juventus in una domenica di giugno, quando giocava nel Padova di Rocco.

Ambientarsi a Torino però non era stato facilissimo: all'inizio gli era toccata la maglia numero otto, e nella sua prima stagione alla Juventus non era mai riuscito a segnare. Ma alla fine la qualità e forse anche la testardaggine lo premiarono, e l'anno dopo riprese a giocare come centravanti. Portò a casa 13 gol in 21 gare, e naturalmente la riconferma in rosa.
Una carriera breve ma densa di soddisfazioni, la sua. Giocò solo otto gare in nazionale, ma la prima, un'amichevole contro la Francia a Colombes, lo vide diventare il più giovane marcatore della storia degli azzurri: aveva solo 18 anni e 258 giorni, e il suo record è ancora imbattuto. Era il 9 novembre del 1958 e la Francia si era da poco guadagnata il terzo posto ai Mondiali: Nicolè segnò due gol in otto minuti, con un piccolo settore dello stadio che si scatenò di gioia. La Francia alla fine pareggiò, ma a fine gara un signore lo avvicinò e gli diede un biglietto: " Grazie a nome di tutti i minatori veneti che lavorano in Francia".

Minatori che anni dopo, seduti al pub, si sono forse chiesti che fine aveva fatto Bruno Nicolè. Poco tempo dopo, a soli 27 anni, aveva scelto di ritirarsi dal calcio giocato per andare a insegnare educazione fisica. C'è da chiedersi cosa si prova ad avere come insegnante l'autore del gol decisivo per la vittoria della prima Coppa Italia della Roma, il più giovane capitano della Nazionale (aveva 21 anni e 61 giorni), uno che è entrato nella classifica del Pallone d'Oro al 19esimo posto. Cosa si prova a fare educazione fisica con l'uomo dei record? Probabilmente i suoi studenti si sono sentiti molto fortunati.

Nel frattempo, quelli che al pub si chiedevano dove fosse finito Fabio Grosso sono sicuramente passati a un altro argomento. Alla fin fine non è importante: Fabio Grosso per certi versi è ancora a Dortmund a gabbare Lehmann con il suo memorabile tiro a giro al penultimo minuto di quella semifinale che difficilmente dimenticheremo, e Nicolè è cristallizzato nella memoria dei minatori veneti allo stadio, dei presenti alla finale di Coppa Italia della Roma e di tutti gli juventini che hanno potuto sognare con la sua velocità.

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