Il leader della coalizione di sinistra in Colombia, Gustavo Petro. Foto: Reuters
La Colombia potrebbe essere a un passo da una svolta storica: nelle elezioni politiche del 13 marzo scorso, che valevano anche come “primarie” per le prossime elezioni presidenziali, la coalizione di sinistra e ambientalista “Pacto Histórico” ha ottenuto un successo senza precedenti, e il suo leader, il senatore Gustavo Petro (di origini italiane, ex sindaco di Bogotà) è risultato il candidato più votato, con quasi 4,5 milioni di voti. Per il centrodestra Federico Gutiérrez ha conquistato 2,1 milioni di voti, mentre il candidato della coalizione di centro, Sergio Fajardo, ne ha ottenuti poco più di 700mila. Il prossimo 29 maggio la sfida sarà tra loro tre: Petro, Gutiérrez, Fajardo, con il primo che parte nettamente favorito. La sinistra non ha mai governato in Colombia, che da sempre è roccaforte della destra, o di un centro estremamente conservatore, come l’attuale presidente, Iván Duque, che dalla consultazione esce sonoramente ridimensionato. E che deve fare i conti con un’estesa disapprovazione per il suo operato (che si attesta al 73% stando alle ultime rilevazioni) sul quale pesano la gestione della pandemia (con un lockdown interminabile che ha provocato la chiusura di oltre mezzo milione di attività commerciali e un progressivo aumento della povertà, soprattutto in quella che un tempo era la classe media), la mancata attuazione del processo di pace con le Farc e il tentativo di riforma fiscale, poi naufragato sotto enormi proteste sociali e politiche.
Ma il racconto di quel che sta accadendo nella politica colombiana, che s’inserisce in quel “vento di sinistra” che sta accarezzando diversi paesi del Centro-Sud America (dall’Honduras al Cile, fino al Perù, presto probabilmente anche al Brasile) non può prescindere da una premessa. Da quella stretta di mano di oltre cinque anni fa (novembre 2021) tra il presidente colombiano Juan Manuel Santos e il leader dei ribelli delle Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) Rodrigo Londoño, più noto come Timochenko, che pose fine, almeno formalmente, a oltre cinquant’anni di guerra civile. «Questo accordo – dichiarò Londoño – ci consentirà di affrontare le nostre differenze in modo civile». La realtà racconta altro. Racconta di un Paese, la Colombia, ancora travolto e stravolto dalla violenza, in mano a bande criminali e paramilitari fuori controllo, dove il narcotraffico impera (è il primo paese al mondo per produzione di cocaina), con i dissidenti delle Farc (circa cinquemila, che non riconoscono gli accordi di pace del 2016) che requisiscono terre e vite dei contadini indigeni nella più totale impunità. Dove i leader sociali e i difensori dei diritti umani continuano a essere assassinati (171 soltanto lo scorso anno), con un bilancio complessivo di 13mila morti soltanto nel 2021; al punto che l’Ufficio per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha definito la Colombia il paese “con più massacri al mondo” (per massacro si intende “l’omicidio intenzionale e simultaneo di più persone, da 3 in su, impossibilitate a difendersi”). Secondo Indepaz, l’Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace in Colombia, nel 2022 (dati aggiornati al 28 marzo) ci sono stati già 28 massacri, con 94 vittime. Anche gli ex combattenti delle Farc (che nel frattempo si è trasformato in partito politico) hanno pagato un prezzo altissimo per aver firmato gli accordi di pace: 293 di loro sono stati uccisi. Molti dissidenti hanno ripreso le armi. E i cartelli del narcotraffico continuano a dettare legge.
Ed è per tutto ciò che la sfida che Gustavo Petro si appresta ad affrontare, con le sue implicazioni progressiste e ambientaliste, assume dimensioni epocali. Il suo successo schiacciante alle primarie presidenziali (che naturalmente dovrà ora essere confermato nel voto reale, quello del 29 maggio) racconta di una stanchezza, di un’esasperazione da parte dei colombiani, ma anche di una rinnovata speranza, di un desiderio di cambiamento, di una pagina finalmente da voltare. Una prospettiva difficilissima da realizzare, e Petro lo sa bene. Da affrontare con coraggio e circondandosi di personalità che possano andare oltre la “personalizzazione dell’uomo forte al potere”, che in Sud America ha ancora un fortissimo appeal. Al punto che Gustavo Petro ha già annunciato il nome del vicepresidente, in caso di vittoria alle presidenziali. Ed è un nome che fa scalpore: quello di Francia Márquez, avvocata, attivista per i diritti umani, vincitrice nel 2018 del Goldman Environmental Prize, considerato alla stregua di un “premio Nobel per l’ambiente”, per la sua lotta nel fermare l'estrazione illegale dell'oro, prima afro-colombiana a concorrere per una carica così alta in un paese storicamente dominato da ricchi bianchi. «Questo è un momento importante per i “nessuno” di questo paese, per tutti coloro che non hanno mai avuto voce in capitolo», ha detto Marquez in una conferenza stampa appena dopo l’ufficializzazione della sua nomina. «Questo è un momento di giustizia razziale, di giustizia di genere, giustizia ecologica: un momento di giustizia sociale». Alle primarie per le presidenziali, Francia Márquez ha ottenuto 780mila voti, piazzandosi al terzo posto assoluto. L’attivista, che nel 2019 è sopravvissuta a un attentato nel dipartimento di Cauca, nel sud del paese, ha poi denunciato di aver ricevuto minacce di morte in due distinte lettere firmate “'Black Eagles”, un gruppo paramilitare di estrema destra legato ai narcotrafficanti. «Presidente Iván Duque, le chiedo di garantire la mia integrità fisica, quella della mia famiglia e dei leader del Pacto Historico», ha scritto Márquez. Il direttore dell’Unità di Protezione Nazionale, Alfonso Campo, ha risposto via Twitter: «La sicurezza di Francia Márquez è garantita. Lei e tutti i candidati alla Presidenza e alla Vicepresidenza della Repubblica ricevono protezione da questo governo che difende la democrazia».
Dunque una figura di altissimo profilo al fianco di Gustavo Petro, la cui affermazione alle primarie comincia davvero a preoccupare le élite colombiane. Petro, che negli anni Ottanta ha fatto parte dell’M-19 (o L’EM, Movimiento 19 de Abril: qui la storia della sua appartenenza al gruppo di guerriglia), è andato a Santiago Del Cile ad assistere all’insediamento del presidente Gabriel Boric: «Andrò a Santiago del Cile per assistere al vero cambiamento in America Latina. Spero che la Colombia faccia parte dei nuovi venti freschi del sud», ha scritto Petro sul suo profilo Twitter. Per poi elencare le linee guida della sua proposta per la presidenza: lotta alle disuguaglianze, assistenza sanitaria, riforma delle pensioni, fine delle esplorazioni petrolifere e spostamento strategico del Paese verso le energie rinnovabili, rilancio dell’industria agricola, progresso nell’industrializzazione, aumento delle tasse per i grandi capitali e investimenti sul turismo. «Sono pronto a dichiarare l’emergenza economica per combattere la fame», ha dichiarato Petro in un recente comizio a Medellin. «E’ necessario un cambiamento, verso un sistema economico che ha raggiunto la sua fine. Verso un sistema sociale che ha prodotto una società profondamente ingiusta». Anche Rodrigo Londoño “Timochenko”, presidente del partito dei Comuni (le estinte Farc), si è schierato dalla sua parte, scrivendo sul suo profilo Twitter, senza nascondere l’entusiasmo: «Gustavo Petro, conta su di noi per fare della Colombia una potenza mondiale. Legifereremo con voi, spalla a spalla, nella lotta alla corruzione e per l’attuazione dell’Accordo di Pace. Per il Paese che sogniamo».
La possibile elezione di Petro alla Casa de Nariño (la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica) sta scatenando una fortissima preoccupazione, ai limiti del panico, nel centrodestra e nei grandi gruppi industriali. Nella stipula dei contratti sembra che sia ormai prassi inserire una “clausola Petro”, vale a dire la possibilità di dichiarare nulli quei contratti nell’eventualità che il candidato di sinistra fosse eletto presidente (o di renderli esecutivi solo in caso di sua sconfitta). «Ho visto molta paura da parte di investitori locali e uomini d’affari: molti di loro hanno sospeso i progetti di investimento fino allo svolgimento delle elezioni», ha dichiarato alla Reuters Andres Abadia, capo economista latinoamericano per la società di consulenza Pantheon Macroeconomics. Ma è soprattutto tra i seguaci dell’ex presidente Álvaro Uribe, ex presidente fino al 2010, ma rimasto al centro della scena politica colombiana, capace di attrarre su di sé critiche e accuse per i metodi feroci e sprezzanti usati contro gli oppositori e per i suoi legami con le fazioni più estreme dell’estrema destra, che sta crescendo la fibrillazione in vista delle elezioni del 29 maggio. Lui, Uribe, rimasto escluso dalle primarie e ormai destinato a passare la mano, continua a mostrare la spavalda arroganza di chi ha avuto, un tempo, il Paese tra le mani: «Non mi preoccupo dei sondaggi: preferisco andare per le strade della Colombia e mantenere un dialogo diretto con i miei connazionali e chiedere loro umilmente di aiutare il Centro Democratico», aveva dichiarato a febbraio, quando l’ombra di Gustavo Petro cominciava a mostrarsi in tutta la sua grandezza. Dopo le primarie ha cambiato tono: «Questo risultato non può essere accettato», ha reagito a caldo Uribe, lanciando sospetti di brogli elettorali e sottolineando «il voto schiacciante per Petro nelle zone del narcotraffico». E ancora: «Farà crescere le repubbliche del narcotraffico»; oppure: «E’ un truffatore, vuole aggredire la democrazia». Gustavo Petro ha risposto a stretto giro: «Visto che Uribe ha perso le elezioni, preferirebbe un colpo di stato».
Andrà avanti così, fino al 29 maggio: una coda di campagna elettorale che si preannuncia aspra, feroce. Ma la partita è tutt’altro che chiusa: la destra punta forte su Federico “Fico” Gutiérrez, ex sindaco di Medellín, di fatto “delfino” di Uribe, ma che evita qualsiasi uscita pubblica, o foto, con l’ex presidente proprio per non essere “contagiato” dalla sua impopolarità. Eppure Gustavo Petro può, e deve, guardare oltre. Guardare al “segno” che la sua elezione potrebbe rappresentare, per la Colombia ovviamente, ma anche per l’intero Sud America. Come ha spiegato al Washington Post: «Proporremo all’America Latina un nuovo percorso. Un “asse” di progressisti tra Cile, Colombia e Brasile. Per una nuova sinistra sudamericana costruita non più sull’estrazione di risorse naturali come hanno fatto i governi del passato, ma sulla protezione dell’ambiente e sul progresso dell’industrializzazione». L’incognita è se poi riusciranno a dialogare queste nuove forze progressiste, diversissime tra loro per storia e formazione, che di nazione in nazione (il Cile di Gabriel Boric, il Perù di Pedro Castillo, lo stesso Venezuela di Nicolas Maduro, l’Honduras della presidente Xiomara Castro, fino al Messico di Andrés Manuel López Obrador, domani probabilmente la Colombia e il Brasile di Lula) stanno portando un nuovo colore al Centro-Sud America. Se riusciranno a fare “squadra”. E come riusciranno a gestire le future mire dei colossi economici mondiali, con l’America Latina che è già terreno di scontro tra Cina e Stati Uniti. E con la Russia nel ruolo (tutto ancora da confermare: dipende da come evolverà il conflitto in Ucraina) di terzo incomodo.