SCIENZA E RICERCA
Il commercio di specie selvatiche è un pericolo per la biodiversità
Foto: Ray Rui/Unsplash
Il commercio di specie selvatiche – animali e vegetali – è un business internazionale di vasta portata, che muove, ogni anno, tra i 4 e i 20 miliardi di dollari. Alle attività lecite si sommano di frequente pratiche sommerse e illegali, che costituiscono in molti casi un serio fattore di rischio per la tutela della biodiversità.
Le specie selvatiche in commercio sono utilizzate negli ambiti più disparati: molte piante hanno un valore ornamentale; diverse specie animali (mammiferi, uccelli, rettili) sono possedute come animali da compagnia; in molti casi, determinate parti degli organismi sono vendute singolarmente per essere impiegate in pratiche di medicina tradizionale (si pensi alla grande richiesta di corna, artigli, scaglie, denti di diverse specie da parte della medicina cinese); spesso, l’obiettivo è la produzione di oggetti di lusso (pelli, avorio). Ad essere venduti sul mercato internazionale sono anche gli alberi – richiesti soprattutto legnami esotici, che vanno ad alimentare, ancora una volta, mercati di lusso – e le specie ittiche, particolarmente esposte al rischio di sovrasfruttamento.
Uno studio pubblicato dalla rivista Nature Ecology&Evolution si propone di quantificare l’impatto di questo florido mercato – nelle sue forme legittime e illegali – sulla biodiversità terrestre, già sottoposta a diversi fattori di stress legati alla crisi climatica di origine antropica. I ricercatori hanno condotto una meta-analisi su un ampio numero di ricerche quantitative già pubblicate, mettendo a confronto i dati e comparando i livelli di biodiversità degli ecosistemi toccati dalle attività di estrazione di specie con i livelli registrati in ecosistemi intatti.
I risultati mettono in luce una situazione allarmante: «Il commercio di specie selvatiche – affermano gli autori – hanno causato un declino del 61,6% nell’abbondanza di specie, con picchi locali di completa estirpazione di alcune specie, osservati nel 16,4% dei casi».
L’analisi evidenzia, inoltre, come il commercio condotto su scala nazionale abbia un impatto maggiore (la riduzione delle specie è del 76,3%) rispetto a quello internazionale (65,8%): calcolando l’impatto del commercio in relazione alla distanza che separa i siti di estrazione dai centri abitati, è emerso come la riduzione delle popolazioni selvatiche sia tanto maggiore quanto più i siti di prelievo sono vicini agli insediamenti umani.
La famiglia delle Orchidaceae è senz’altro fra le più sfruttate per il commercio
È importante specificare, come fanno gli autori, che non in tutti i casi il commercio di specie selvatiche ha conseguenze negative sull’ambiente: vi sono, infatti, modalità di prelievo di specie selvatiche che, in molti casi, assicurano alle popolazioni locali un’importante fonte di sostentamento e si mantengono entro livelli di sostenibilità, non producendo un impatto negativo sull’ecosistema. Queste pratiche, spesso frutto di culture tradizionali, dovrebbero essere preservate e considerate modelli da seguire. Accanto ad esse, tuttavia, si sono sviluppate attività la cui sostenibilità è decisamente inferiore, condotte a scopo di lucro da pochi, grandi attori che, spesso, eludono le norme e le regolamentazioni vòlte a tutelare l’ambiente e le popolazioni locali.
Per affrontare le problematiche connesse a questo genere di attività, la regolamentazione – a livello locale e su scala internazionale – è essenziale: è quanto afferma Piero Genovesi, responsabile del Servizio per il coordinamento delle attività della fauna selvatica dell'ISPRA. «Gli strumenti normativi sono molti, e altri se ne stanno aggiungendo in questi anni», spiega Genovesi. Uno dei principali, citato anche nello studio, è la CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora), anche nota come Convenzione di Washington, che regolamenta il commercio internazionale di specie selvatiche mirando a tutelare soprattutto le specie a rischio di estinzione, che – come evidenziano gli autori della ricerca di Nature – sono particolarmente esposte al rischio di estinzione anche a causa delle attività di prelievo a scopo commerciale.
L'intervista completa a Piero Genovesi. Montaggio di Barbara Paknazar
È molto importante, poi, che i legislatori dedichino pari attenzione a tutti i canali di commercio oggi disponibili: internet, in tal senso, ha aperto nuove frontiere, rendendo la vendita di specie esotiche più rapida e diffusa, e garantendo un certo grado di elusività rispetto ai regolamenti. Sono in corso trattative con alcune delle piattaforme che offrono servizi di vendita, proprio per sviluppare una sorveglianza adeguata ed efficace anche per questi canali, solitamente meno controllati, per evitare che essi mettano a rischio la biodiversità di alcune specie e di interi ecosistemi mediante un tasso eccessivo di sfruttamento».
Uno strumento essenziale nella salvaguardia della biodiversità, anche in relazione ai pericoli del commercio di specie selvatiche, è l’istituzione e la corretta gestione di aree protette. È un tema che gli autori dello studio approfondiscono: comparando, infatti, lo “stato di salute” di ambienti non protetti e di altri sottoposti a tutela, appare con chiarezza come questi ultimi beneficino degli effetti della protezione. Il commercio causa, infatti, declini della biodiversità del 70,9% in zone non protette e del 56% in aree protette: uno scarto considerevole, per quanto anche nelle aree protette l’impatto delle attività di estrazione di specie sia ancora troppo alto. «Le aree protette – commenta Genovesi – costituiscono un’opportunità che bisogna, però, imparare a mettere a frutto. Non basta, infatti, istituire sulla carta aree protette, ma è importante che le si dotino di strumenti e risorse, materiali e umane, perché la tutela sia effettiva. In alcune aree del mondo vi sono, in tal senso, serie carenze: l’obiettivo globale di realizzare, entro il 2030, la protezione del 30% della Terra ha spinto alcuni paesi a instituire zone protette in regioni remote e inaccessibili, dove non c'è alcun controllo, e dove, quindi, lo sfruttamento – spesso illegale – di specie non è realmente regolamentato.
La pandemia, inoltre, ha segnato una battuta d’arresto nell’implementazione di questo programma di tutela su vasta scala: se, da un lato, le limitazioni alla mobilità hanno reso più difficile il prelievo di specie, dall’altra parte hanno anche ridotto le possibilità e le risorse (economiche e umane) a disposizione degli organismi preposti alla vigilanza delle aree protette. Dall'inizio della pandemia, molti Paesi lamentano un aumento del bracconaggio e del prelievo illegale di specie a rischio anche in aree protette, proprio a causa della ridotta capacità di controllo e tutela. In diversi Paesi, per di più, il drastico calo dell’afflusso di turisti ha determinato una riduzione delle risorse che venivano impiegate proprio per finanziare le attività di controllo del territorio».
Come spesso accade quando si tratta di problemi globali, può sembrare che la questione del commercio di specie selvatiche sia qualcosa di esotico e di lontano dalla nostra quotidianità. In realtà non è così, come spiega Genovesi: «In Europa sono presenti più di 32 milioni di animali da compagnia, e l’Italia è al terzo posto in questa classifica, con una media di 53 animali ogni 100 abitanti. E non si tratta solo di cani e gatti, ma anche di uccelli, rettili, pesci. La regolamentazione è certamente importante, ma non può essere efficace se non è affiancata da una maggiore consapevolezza da parte dei compratori: per questo motivo, è essenziale offrire un’informazione il più possibile chiara ed esaustiva circa le specie il cui commercio è sostenibile, la loro provenienza geografica, la legalità della loro commercializzazione, il loro impatto sull’ambiente d’importazione».