SCIENZA E RICERCA

Cosa sappiamo di Lucy, il fossile di australopiteco scoperto 50 anni fa

Nel 1974 venne scoperto in Etiopia uno dei più importanti fossili nella storia della paleoantropologia. Si trattava dello scheletro straordinariamente preservato di un ominide di sesso femminile vissuto ben 3,2 milioni di anni fa, che venne ben presto soprannominato Lucy. Questo celebre ritrovamento diede inizio a una nuova stagione di dibattiti sull’evoluzione umana; fornì nuove risposte e sollevò altre domande rispetto allo sviluppo di tratti che fino ad allora si credeva fossero prerogativa del genere Homo (in primis, il bipedismo), e mise in discussione le teorie dell’epoca sulla filogenetica umana.

Ripercorriamo alcuni di questi dibattiti con Andra Meneganzin, ricercatrice post-doc in filosofia della biologia e filosofia della paleoantropologia – con un particolare focus sull’evoluzione umana – all’università cattolica di Leuven, in Belgio. Meneganzin è inoltre di ritorno da un simposio organizzato dall’Institute of Human Origins in occasione dei cinquant’anni dalla scoperta di Lucy.

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Ascolta l’intervista completa ad Andra Meneganzin

Come ricorda Meneganzin, i protagonisti di questo storico evento, avvenuto il 24 novembre 1974, furono il paleoantropologo Donald Johanson e il suo studente di allora, Tom Gray, i quali si imbatterono nel fossile in questione nel sito archeologico di Hadar. nella regione di Afar, Etiopia.

“I due si resero conto immediatamente di avere per le mani qualcosa di straordinario, anche se molti dei dettagli allora sfuggivano”, racconta la ricercatrice. “Come riportano diversi resoconti del giorno della scoperta, Donald Johnson notò inizialmente l’osso di un gomito che sbucava dalla terra a un livello relativamente superficiale, con caratteristiche morfologiche molto diverse da quelle di una scimmia. Capì quindi immediatamente di star osservando un fossile di ominide. Individuò poi i frammenti del cranio, di un femore, delle ossa del bacino, e infine qualche vertebra.

Nell’arco di circa due settimane venne recuperato il 40% dello scheletro di un esemplare femmina che fu soprannominato immediatamente Lucy, ma che ricevette un battesimo linneano, cioè un nome di specie, solo quattro anni dopo”. Nel 1978 il fossile fu attribuito alla specie Australopithecus afarensis, vissuta durante un lasso di tempo compreso tra i 3,8 e 2,9 milioni di anni fa.

L’esatta collocazione di questa specie sull’albero evolutivo umano è un tema al centro di un acceso dibattito, che continua ancora oggi”, sottolinea Meneganzin. “All’epoca della scoperta, si credeva che Lucy si trovasse in una posizione basilare, da cui si sarebbero diramate diverse linee evolutive, tra cui anche il genere Homo”.

Oggi, dopo cinquant’anni di ricerca paleontologica, non si pensa più all’evoluzione come un “albero” dotato di un tronco principale dal quale si diramano diverse propaggini, quanto piuttosto come a un cespuglio in cui diverse linee evolutive si sviluppano in parallelo. È stata scoperta, infatti, l’esistenza di diverse specie che vivevano contemporaneamente durante il periodo compreso tra i 3 e i 4 milioni di anni fa, una finestra temporale che costituisce un crocevia importante nell’evoluzione umana. “Alcuni paleoantropologi considerano quindi Lucy una lontana “prozia”, piuttosto che un’antenata diretta”, spiega Meneganzin.

Non erano comunque solo gli esperti a speculare sui dettagli di questo straordinario ritrovamento. La scoperta di Lucy ebbe un impatto notevole anche sull’immaginario comune, sollevando domande esistenziali riguardanti la natura e la provenienza della specie umana. Lucy, in altre parole, non è mai stata considerata un fossile come gli altri: il suo volto era destinato a diventare un simbolo della ricerca paleoantropologica.

Come racconta Meneganzin, l’iconicità di questo australopiteco è dovuta a ragioni sia comunicative, sia scientifiche. “Quella di Lucy è una storia di molteplici battesimi, in cui si è passati da un numero di catalogo (AL 288-1) a un soprannome, a un nome di specie”, spiega. “In Etiopia, inoltre, Lucy è nota anche come Dinkʼinesh, termine aramaico traducibile con ‘sei speciale’, o ‘sei meravigliosa’ e, nella regione di Afar, anche come Heelomali, che ha sostanzialmente lo stesso significato. Al di là dei tanti soprannomi affidati a questo fossile – atto che non rappresenta di per sé una novità in ambito paleontologico – Lucy è stata resa una sorta di personalità pubblica. Da fossile, è diventata una paleo-persona dotata di un volto, di caratteristiche e di tratti della personalità su cui il pubblico si interrogava.

Credo perciò che parte del successo di Lucy come icona sia dovuto a questa operazione comunicativa. Esistono però anche delle ragioni scientifiche molto importanti: Lucy ha permesso di raccogliere dati relativi a una fase dell’evoluzione umana di cui allora si conosceva molto poco”. Il suo scheletro costitutiva infatti il dato fossile più vicino a quell’orizzonte temporale che all’epoca si stava cercando di calcolare: quello in cui era avvenuta la separazione tra scimpanzé e linea evolutiva umana, stimato tra i 5 e i 7 milioni di anni fa. “Le domande che emersero dall’analisi del fossile di Lucy riguardavano l’origine di quei tratti che “ci rendono umani”, tra cui, in primis, il bipedismo, che a quel tempo si riteneva una prerogativa del genere Homo”, prosegue Meneganzin. “Il ritrovamento di Lucy ha mostrato come le origini di questo tratto fossero invece molto più antiche, e che esso fosse presente anche in specie dai caratteri morfologici più scimmieschi.

Lo scheletro di Lucy conserva diversi distretti anatomici – come, ad esempio, la forma delle ossa del bacino, del femore e della curvatura delle vertebre – che sono indicativi di un’andatura eretta. Eppure, il suo volume endocranico era poco più grande di quello di uno scimpanzé. Lucy aveva un cervello delle dimensioni di un melograno, per intenderci”. La sorpresa, come racconta Meneganzin, fu scoprire che lo sviluppo del tratto del bipedismo fosse molto più antico rispetto al trend di encefalizzazione, ovvero il progressivo aumento della massa cerebrale, vantaggio evolutivo fondamentale per H. Sapiens. “Questo non stupisce i paleoantropologi di oggi”, continua la ricercatrice. “Oggi sappiamo che l’evoluzione colpisce tratti diversi con ritmi diversi. Per questo si parla di ‘evoluzione a mosaico’. Comunque, non dobbiamo immaginare che l’andatura di Lucy fosse davvero paragonabile alla nostra. Le proporzioni dei suoi arti inferiori e superiori fanno pensare ad un centro di gravità differente rispetto al nostro, che le permetteva di percorrere distanze diverse”.

Come già anticipato, l’attribuzione di Lucy alla specie Australopithecus afarensis non avvenne subito dopo la scoperta del fossile, bensì in seguito a un minuzioso lavoro di analisi di anatomia comparata svolto in particolare da Donald Johanson, in collaborazione con Tim White. I due studiosi paragonarono le caratteristiche dello scheletro in questione con quelle di altri fossili provenienti anche da siti diversi da quello di Hadar, tra cui quello di Laetoli, in Tanzania. In quel luogo, qualche anno prima, la paleoantropologa Mary Leakey aveva scoperto una pista di impronte lasciate da tre ominidi che avevano camminato in quel luogo circa 3,6 milioni di anni fa.

“Tim White era convinto sin dall’inizio che i fossili provenienti da questi due siti appartenessero a un’unica specie”, spiega Meneganzin. “Donald Johanson, invece, in linea con i framework interpretativi del tempo, credeva che tali ritrovamenti andassero attribuiti a due generi distinti: Homo e Australopiteco. Qui si potrebbe aprire un’interessante riflessione sul fatto che le attribuzioni tassonomiche non avvengano in un vuoto teoretico, ma dipendano dalle cornici interpretative in un determinato periodo storico. Comunque, attraverso vari round di analisi comparata, Tim White riuscì a convincere Donald Johanson che si trattava di un’unica specie, ma con un alto grado di dimorfismo sessuale, cioè con delle forti differenze tra gli individui di sesso femminile e quelli di sesso maschile.

Dopo la pubblicazione del nome di specie, si aprirono degli intensi dibattiti sulla filogenesi umana, alcuni dei quali arrivarono addirittura in televisione, come quello del 1981 tra Donald Johanson e Richard Leakey, il suo principale rivale scientifico. Queste discussioni mostrarono come la visione lineare dell’evoluzione, caratterizzata dal minimalismo tassonomico introdotto da un biologo illustre come Ernst Mayr negli anni Cinquanta, iniziava a scricchiolare”.

Come spiega Meneganzin, ancora oggi sono molte le domande ancora senza risposta riguardo ai dettagli della vita di Lucy e alle caratteristiche della specie Australopithecus aferensis. Oggi si cerca di capire, ad esempio, quale fosse l’organizzazione sociale di aferensis. “Sono emerse nuove evidenze interessanti dalle piste di impronte di Laetoli”, spiega Meneganzin. “Parlo al plurale perché, oltre a quella già citata, un’altra è stata trovata di recente da un gruppo di ricerca a conduzione italiana. L’analisi di queste orme, lasciate da un gruppo di cinque individui, non solo ha confermato il fatto che in aferensis fosse presente un alto grado di dimorfismo sessuale, ma ha anche suggerito un’ipotesi interessante riguardo alla struttura del gruppo sociale dei membri di questa specie, che si crede fosse composto da un unico maschio riproduttore e diverse femmine”.

Un mistero ancora irrisolto riguarda invece le dinamiche della morte di Lucy. “Il tema è al centro di una sorta di inchiesta di paleoantropologia forense”, prosegue Meneganzin. “Lo scheletro di Lucy non presenta segni tipici della predazione o della masticazione da parte di carnivori e saprofagi (a parte il segno di un dente sul suo osso pubico). Uno studio pubblicato su Nature qualche anno fa, suggeriva perciò che Lucy fosse morta a causa delle lesioni riportate in seguito alla caduta da un albero. Tim White e Donald Johanson si mostrarono immediatamente in disaccordo con questa ipotesi, suggerendo che le fratture analizzate fossero invece compatibili con il processo di calpestamento da parte di alcuni animali avvenuto post-mortem”.

Come riflette Meneganzin, è molto difficile, anche da un punto di vista filosofico, prevedere quali indizi emergeranno in futuro dall’analisi scheletro di Lucy. “Non sappiamo quali nuove informazioni ci potrà dare un fossile di questo tipo”, afferma. “Questa credo che sia una caratteristica anche epistemica della paleoantropologia stessa: non sappiamo circoscrivere perfettamente ciò che non conosciamo. Spesso nuove domande vengono aperte dall’avanzamento dei modelli teoretici, dalla presenza di nuove evidenze e dalla disponibilità di nuovi metodi di analisi che permettono di tornare a rianalizzare dei dati e dei materiali già acquisiti ponendo loro altre domande, e ottenendo risposte diverse. Questa è la ragione per cui personalmente trovo molto riduttiva la metafora del “puzzle evolutivo” per rappresentare il processo di indagine della paleoantropologia: non sappiamo quali sono i tasselli che ancora ci mancano e spesso, introducendone altri, l’immagine complessiva cambia, almeno in alcune delle sue parti. Perciò, credo che sia meglio rimanere aperti alla possibilità che l’avanzamento della ricerca ci indichi nuovi modi di interrogare anche il fossile stesso di Lucy e di farci raccontare da lei nuove storie”.

Alcune nuove ricerche stanno ricostruendo, ad esempio la paleodieta di Lucy che, com’è stato scoperto negli anni, non era prettamente vegetariana (come quella del suo antico parente, Australopithecus anamensis) quanto, piuttosto, scarsamente onnivora. “Questa informazione ha permesso di ipotizzare, in particolare, alcune relazioni causali tra l’origine del bipedismo e il cambio di dieta in questione, che avrebbero permesso ad afarensis di addentrarsi in nuovi ambienti e nuove nicchie ecologiche”, sottolinea Meneganzin.

Si tenta inoltre di capire se Lucy utilizzasse strumenti litici. La ricostruzione della biomeccanica della sua mano – a partire dall’analisi di dati morfologici – suggerisce che ella fosse in grado di servirsi di utensili in pietra. “Questa ipotesi è supportata dalla scoperta, nel 2015, di un nuovo tipo di industria litica: il Lomekwiano, relativo al sito di Lomekwi in Kenya”, prosegue Meneganzin. “Questa cultura materiale è datata 3.3 milioni di anni fa, un periodo in cui l’area in questione era abitata da diversi ominidi, tra cui Kenyanthropus e Australopiteco. Per cui, se una volta si pensava che Lucy utilizzasse solo strumenti organici, oggi invece molti ricercatori sostengono che fosse anche in grado di manipolare oggetti litici – ovviamente nei limiti concessi dalla biomeccanica della sua mano. Lo sviluppo di questa capacità in afarensis potrebbe inoltre essere legato anche al cambio di dieta descritto poc’anzi. Insomma, sono molte le domande ancora irrisolte che oggi guidano la ricerca”. Tra i tanti interrogativi senza risposta, viene spontaneo domandarsi quanto sarà cambiato, tra altri cinquant’anni, il ritratto scientifico di Lucy. Per ora, possiamo solo provare a immaginarlo.

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