Un presidente “licenziato” dal Parlamento, un paese che ribolle di rabbia, la polizia che risponde con violenza e sopra qualsiasi regola. Il Perù sta scivolando in queste ore nella sua crisi più buia, in una drammatica emergenza politica, sociale, sanitaria ed economica. Lunedì scorso l’atto finale, che ha messo la parola fine alla carriera politica del conservatore Martin Vizcarra Cornejo, che dal 2018, e fino a poche ore fa, ha ricoperto la carica di Presidente del Perù. È sospettato di corruzione, di aver intascato tangenti (tra il 2014 e il 2015: circa 600mila dollari) in cambio della concessione di lavori pubblici quando era governatore della regione di Moquegua, un territorio nel sud del paese, sulle coste del Pacifico. Per questo il Parlamento monocamerale peruviano, dove l’opposizione ha la maggioranza, ha votato a favore dell’impeachment per “incapacità morale permanente”, con una compattezza che va ben oltre l’appartenenza politica: 105 voti favorevoli, 19 contrari e 4 astensioni. E che ha abbondantemente superato la maggioranza dei due terzi richiesta dalla Costituzione per la destituzione del Presidente in carica. In pratica, Vizcarra è stato licenziato, cacciato con ignominia prima ancora che fosse accertata la sua eventuale responsabilità. Lo scorso settembre c’era stata un’altra mozione parlamentare contro Vizcarra, che si era però conclusa con soli 32 voti a favore della rimozione, a fronte di 78 contrari e 15 astenuti. Questa volta invece il Parlamento ha cavalcato le accuse, basate su testimonianze che non hanno ottenuto l’avallo della magistratura.
Si può parlare di golpe bianco? Per molti analisti sì. E soprattutto per moltissimi peruviani che da tre giorni scendono in piazza per protestare la loro rabbia, sostenendo che la condanna è esclusivamente politica, che il voto del Congresso è una “ritorsione” e non un’operazione di ripristino della legalità. Detta bruscamente: un colpo di stato silenzioso. Subito dopo il voto Vizcarra è apparso in tv, ribadendo con fermezza la sua innocenza, ma dichiarando di non volersi opporre alla decisione: «Me ne vado con la coscienza pulita e a testa alta. Saranno la storia e il popolo peruviano a giudicarmi». Il suo mandato sarebbe comunque scaduto il prossimo aprile, quando si terranno le nuove elezioni presidenziali. Presidente ad interim è stato nominato Manuel Merino de Lama, presidente in carica del Congresso, liberale, esponente di Azione Popolare, acerrimo oppositore di Vizcarra, lui stesso promotore della mozione di impeachment: «Abbiamo le prove, cos’altro aspettiamo? Bisogna votare» ha gridato Merino all’aula, scompostamente, durante l’udienza trasmessa in diretta tv. Ad oggi, lo riporta anche l'ABC, il governo ad interim di Merino non ha ricevuto alcun riconoscimento internazionale.
Proteste in piazza contro “l’usurpatore” Merino
Il nuovo presidente del Perù è apparso molto più pacato nel suo discorso d’insediamento e di giuramento. «Dobbiamo porre fine al confronto e dare una svolta al rapporto tra Esecutivo e Legislatura, che purtroppo negli ultimi anni non è stato adeguato», ha dichiarato il nuovo Presidente. «Allo stesso modo, dobbiamo chiedere calma e tranquillità a tutti i cittadini. Non possiamo dividere il paese». Ma il Perù è già diviso, frammentato, lacerato politicamente e socialmente. Migliaia di manifestanti sono già scesi in strada a Lima, concentrandosi in Plaza San Martín, per protestare contro l’impeachment di Vizcarra e gridando slogan anche contro Merino “l’usurpatore”, che trascorrerà i prossimi sei mesi occupando il duplice ruolo di Presidente del Perù e capo del Parlamento. Una profonda incrinatura della divisione dei poteri che ha scatenato le proteste di piazza, al grido di “Merino non è il mio presidente”. La PNP (Polizia nazionale Peruviana) ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma sui dimostranti impedendo loro di raggiungere il Palazzo del Governo. Manifestazioni anche in altri centri del Paese, da Arequipa a Cusco, da Huancayo, a La Libertad. Mercoledì sera a Lima la protesta, animata da moltissimi studenti, è durata per 16 ore consecutive. E la situazione rischia di scivolare rapidamente fuori controllo: la polizia spara ad altezza d’uomo e ferma indiscriminatamente i manifestanti, o magari persone che soltanto per caso passavano di lì, anche minorenni. Avvocati denunciano che agli arrestati vengono negati i più elementari diritti, perfino l’incontro con i loro legali. E cosa avviene dietro le quinte si può soltanto immaginare, o temere. La PNP ha parlato di 51 arresti, ma il numero potrebbe essere molto più alto. La National Association of Journalists sostiene che almeno 16 tra fotoreporter e giornalisti che stavano seguendo le manifestazioni sono stati “attaccati dalla polizia". Amnesty International ha chiesto alle autorità peruviane il “rispetto dei diritti umani”.
Ma sono in molti a parlare apertamente di “colpo di stato”: come il gruppo di docenti e studiosi sudamericani che ha pubblicato un documento (si può leggere integralmente qui) nel quale prende una netta posizione: «Esprimiamo la nostra preoccupazione per l’attuale crisi politica in Perù e condanniamo il colpo di stato parlamentare orchestrato dal Congresso peruviano contro il presidente Martín Vizcarra», hanno scritto, ricordando inoltre che «La costituzione peruviana garantisce al popolo, non al Congresso, il diritto di eleggere il presidente». Oppure come il quotidiano peruviano La Republica, che si è fatto promotore di un appello, già firmato da oltre centomila peruviani: «I membri del Congresso hanno rubato il potere in cambio di benefici illegali», scrivono i promotori, sottolineando come attualmente siano sotto processo, e in attesa di giudizio, 68 dei 130 parlamentari del Congresso. Anche l’arcivescovo di Lima, monsignor Carlos Castillo, ha definito quanto accaduto «qualcosa di molto serio: al Congresso è mancato il senso della misura».
Gli ultimi 6 presidenti accusati di corruzione
Le parole chiave per leggere quanto sta accadendo in Perù (“un paese in decomposizione” lo definisce il quotidiano spagnolo El Pais) sono due: “corruzione” e “impeachment”, un binomio che aleggia da anni nelle case del potere e che ha travolto tutti i protagonisti della vita politica peruviana degli ultimi trent’anni. A partire dal dittatore Alberto Fujimori, estromesso nel 2000 e condannato a 25 anni di carcere per corruzione e crimini contro l’umanità. Dopo di lui Alejandro Toledo, in carica fino al 2006, anche lui alla fine incriminato per corruzione e fuggito negli Stati Uniti (e lì arrestato: è ancora pendente una richiesta di estradizione). Alan García, che subentrò a Toledo, rimase in carica fino al 2011. Lo scorso anno, mentre la polizia gli notificava un ordine di arresto per corruzione, ha preferito uccidersisparandosi un colpo alla testa. Ollanta Kumala, in carica dal 2011 al 2016, è in libertà condizionale, accusato con la moglie di riciclaggio di denaro. Il suo successore, Pedro Pablo Kuczynski, che alle elezioni aveva battuto Keiko Fujimori, la figlia del dittatore, si è dimesso nel 2018 quando il Congresso autorizzò la procedura di impeachment nei suoi confronti, sempre con l’accusa di riciclaggio di denaro: ora è in carcere, in attesa di processo. Al suo posto venne eletto Martin Vizcarra, che di Kuczynski era vice. Della lotta alla corruzione aveva fatto il suo manifesto politico, e perciò era molto amato dai peruviani (gli ultimi sondaggi gli accreditavano un gradimento che sfiorava l’80%).
Oggi lo schema si ripete: Vizcarra estromesso (grazie al grimaldello dell’impeachment, che accorcia di molto i tempi), Merino nuovo Presidente, ma per la prima volta nel doppio ruolo: del Perù e del Congresso. «L'equilibrio dei poteri è stato violato con la presa dell'esecutivo da parte del legislativo: il nuovo Governo deve cercare di garantire il ripristino della correlazione dei ruoli», sostiene la politologa Adriana Urrutia, che assieme ai costituzionalisti César Landa e Samuel Abad chiede garanzie sulla correttezza delle future elezioni, “libere e trasparenti”. Un caos istituzionale che s’innesca al culmine di una feroce crisi economica (il Prodotto interno lordo è in caduta libera) e dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19 (oltre 924mila casi e circa 35mila vittime), con il Perù che risulta il paese al mondo con il più alto tasso di mortalità rispetto alla popolazione.
Dallo scandalo Odebrecht a oggi
Che la politica peruviana, e sudamericana in generale, sia intrisa di corruzione fino alle fondamenta è cosa nota, soprattutto dopo la diffusione dei dettagli del cosiddetto scandalo Odebrecht, dal nome della più grande società edile dell’America Latina accusata di aver pagato per anni colossali tangenti in 14 Stati per ottenere in cambio appalti per lavori pubblici. Uno scandalo senza precedenti che ha travolto paesi e governi, dal Brasile di Lula al Venezuela di Maduro, passando per l’Argentina, la Colombia, l’Ecuador, fino al Messico, alla Repubblica Dominicana, al Mozambico. Soltanto in Perù, come scrive il Post, Odebrecht ha ammesso di avere pagato 29 milioni di dollari in tangenti a funzionari pubblici tra il 2005 e il 2014, in cambio di 12,5 miliardi di dollari in contratti ottenuti da appalti irregolari. Una corruzione “strutturale” che facilita, per così dire, il “volare” delle accuse e le rende immediatamente credibili verso chiunque. Ed è pur vero che Vizcarra è stato un Presidente anomalo: eletto come indipendente, senza una dichiarata maggioranza di membri del Congresso a suo favore che potessero fare da “contrappeso” a tentativi di estrometterlo dalla vita politica, com’è poi accaduto. Peraltro Vizcarra aveva tentato di spezzare l’attuale assetto del Congresso, guidato in larga maggioranza dai seguaci dell’ex dittatore Fujimori (la figlia Keiko è attualmente in prigioneaccusata di aver intascato finanziamenti illeciti), proponendo una legge che impediva la candidatura a persone già condannate in primo piano e un vincolo alla nomina, da parte dei parlamentari, dei giudici della Corte Costituzionale. Legge sottoposta a referendum, con l’85% di voti favorevoli. Ma il Congresso si è sempre rifiutato di applicare le nuove norme, al punto che l’ex Presidente è arrivato a chiederne lo scioglimento. Una mossa che, a quanto pare, gli è stata fatale.