SCIENZA E RICERCA
Energia idroelettrica sostenibile: possibile con una pianificazione “di rete”
La diga di Xayaburi nel Mekong inferiore
Produrre energia idroelettrica attraverso la costruzione di grandi dighe, contenendo le ripercussioni sull’ambiente circostante, si può: attraverso una pianificazione strategica condotta a livello “di rete”, e non di singola struttura, con un "approccio di bacino" che tenga conto degli impatti cumulativi sui processi fluviali. Strumenti e conoscenze scientifiche già esistono. È questo, in estrema sintesi, l’assunto di fondo di alcuni ricercatori – Rafael J.P. Schmitt, Simone Bizzi, Andrea Castelletti, G. Mathias Kondolf – che negli ultimi anni hanno concentrato le loro indagini su realtà come il fiume Mekong nel Sud-est asiatico e, più recentemente, sul Rio delle Amazzoni. E, numeri alla mano, hanno dimostrato le loro ipotesi.
L'idroelettrico fornisce una preziosa risorsa di energia rinnovabile, ma ormai è noto che la costruzione di grandi dighe altera in modo significativo l’ecosistema circostante e, in particolare, il sistema naturale dei processi fluviali. In molti Paesi lo sviluppo idroelettrico dei grandi bacini fluviali è un elemento centrale per lo sviluppo economico e sociale: le grandi dighe nel mondo generano circa un sesto dell'energia elettrica consumata e irrigano un settimo dei campi agricoli. “Queste strutture tuttavia – spiega Simone Bizzi, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova – hanno molteplici impatti sul nostro ecosistema, creano una disconnessione netta tra monte e valle”. Alterano il trasporto solido e liquido (dunque delle acque e dei sedimenti) verso valle, e creano deficit che modificano profondamente l’equilibrio morfologico e idrologico dei fiumi, gli habitat e la vegetazione. “Sebbene le dighe siano una risorsa fondamentale per le nostre società, soprattutto le grandi dighe, per la produzione idroelettrica, la difesa dalle piene e l’approvvigonamento di acqua, gli impatti sono talmente alti che diversi studi hanno stimato che gli effetti indiretti a lungo termine, a 10-20 anni dalla costruzione, se quantificati economicamente mettono in discussione il progetto stesso”.
Ebbene, i ricercatori hanno preso in esame il caso del fiume Mekong ed esposto i risultati in un articolo pubblicato su Nature Sustainability, dal titolo Improved trade-offs of hydropower and sand connectivity by strategic dam planning in the Mekong, che si è aggiudicato il premio Aspen 2021 per la collaborazione e la ricerca scientifica tra Italia e Stati Uniti. Il Mekong è il fiume più lungo del Sud-est asiatico, intorno al quale ruota lo sviluppo economico dell’intera regione. Si snoda per 4.800 chilometri in sei Paesi diversi – Cina, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e Vietnam – e attraversa ecosistemi ricchissimi di biodiversità, fornisce pesce e acqua alla popolazione che vive nel suo bacino idrografico e dà sostentamento a oltre 60 milioni di persone.
Intervista completa a Simone Bizzi, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova. Montaggio di Elisa Speronello
Si tratta di un’area che negli ultimi 30-40 anni ha visto uno sviluppo socio-economico enorme e in cui vengono costruite dighe a un ritmo veloce per la crescente domanda di energia nei paesi ripariali. La costruzione di queste strutture, come si è visto, non è priva tuttavia di conseguenze sul funzionamento biofisico del bacino, dato che interrompe la migrazione dei pesci e disconnette le pianure alluvionali del Mekong e il delta dalle loro fonti di sedimenti.
I ricercatori si sono mossi in più direzioni. Da un lato, hanno condotto uno studio concentrato sul bacino detto del 3S, che comprende gli affluenti Se Kong, Se San e Sre Pok ed è la principale fonte di sabbia per il delta del Mekong, fondamentale dunque per la sua sopravvivenza. Dall’altro, hanno considerato l’intero corso, per verificare come le dighe esistenti e quelle pianificate per i prossimi 20 anni potrebbero impattare sul trasporto dei sedimenti, per valutare cioè in che misura potrebbero modificare la morfologia e quindi gli habitat dei fiumi a valle e diminuire l’apporto di sedimenti verso il delta: un ecosistema, questo, in cui vivono 20 milioni di persone, estremamente fragile perché lentamente sta andando sotto il livello del mare. “Questo accade per diversi fattori: incide innanzitutto la costruzione delle dighe; in secondo luogo la subsidenza, molto rilevante nel delta del Mekong; infine l’innalzamento del livello del mare dovuto al cambiamento climatico. Questi tre fattori, insieme, mettono a rischio un ecosistema come il delta del Mekong: per questo abbiamo voluto valutare quanto una pianificazione strategica, che consideri l’impatto cumulato nella costruzione delle dighe, potesse migliorare l’apporto di sedimenti verso il delta rispetto alla attuale pianificazione”.
Oggi le dighe nel bacino del Mekong sono, infatti, per lo più pianificate progetto per progetto e senza un’analisi strategica dei loro impatti cumulativi sui processi fluviali, come la connettività dei sedimenti. La situazione attuale genera il 54% dell’energia idroelettrica pianificata, riducendo però la sabbia verso il delta del 91% rispetto a una situazione senza dighe. I quattro ricercatori hanno dimostrato, invece, che adottando un approccio strategico alla pianificazione che consenta di stabilire dove costruire le dighe – collocandole dunque in modo differente all’interno del bacino – e di che dimensione, sarebbe stato possibile produrre il 68% dell’energia pianificata riducendo il trasporto di sabbia solo del 21%.
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Nell’articolo su Nature Sustainability, gli autori sottolineano che una singola diga può avere impatti significativi sull’ecosistema rispetto al suo potenziale idroelettrico: tali impatti sulla connettività dei sedimenti possono essere mitigati in certa misura attraverso una specifica progettazione tecnica, ma è probabile che queste misure di mitigazione non siano efficaci quanto lo sarebbe escludere le dighe a più alto impatto nei siti più sensibili. Per ottenere questo risultato, però, è necessario affidarsi per l’appunto a una pianificazione di altro tipo, adottando una prospettiva che tenga conto dei benefici economici e al tempo stesso degli impatti ambientali delle dighe. Lo sviluppo di energia idroelettrica può rappresentare una considerevole minaccia per i più grandi ecosistemi fluviali del mondo, se implementati singolarmente, senza una visione d’insieme e in modo non coordinato. L’approccio proposto dai ricercatori, invece, consente di tener conto dell'eterogeneità degli ecosistemi fluviali e di produrre energia idroelettrica sostenibile, identificando quale sia il miglior compromesso tra impatti e benefici delle dighe.
“Le ragioni per cui una pianificazione strategica di questo tipo non viene ad oggi concretamente attuata – sottolinea Bizzi – sono molteplici e nemmeno di facile soluzione. In questo bacino per esempio ci sono tre Paesi, Vietnam, Laos e Cambogia, che sono in una fase di sviluppo economico differente l’uno dall’altro. Il Vietnam ha una crescita economica più veloce e ha costruito un maggior numero di dighe che stanno già avendo un impatto sull’ecosistema. Altri Paesi invece, in cui lo sviluppo economico sta avvenendo negli ultimi anni, stanno ancora pianificando la costruzione di dighe”. Lo studioso ammette dunque l’esistenza di barriere geopolitiche e socioeconomiche non trascurabili, ma sottolinea comunque che gli strumenti e le conoscenze scientifiche per mitigare l’impatto ambientale esistono. Nel caso specifico del Mekong, per esempio, oltre a modelli di analisi decisionale multiobiettivo, è stato utilizzato il Cascade toolbox, uno strumento sviluppato dal gruppo di lavoro, utile a modellizzare il trasporto solido a scala di bacino.
La rilevanza di questi risultati apre spazi di discussione importanti intorno alle 3.700 grandi dighe (ciascuna con una capacità di oltre 1 MW) che sono previste o già in fase di costruzione nel mondo, soprattutto nei Paesi con economie emergenti. Si prevede che queste strutture aumenteranno l'attuale capacità idroelettrica globale del 73%, a circa 1.700 GW. Allo stesso tempo, però, ridurranno il numero dei grandi fiumi che oggi scorrono liberamente nel nostro pianeta di circa il 21%. Molte di queste dighe saranno collocate in bacini poco sviluppati e potenzialmente fragili, situati per esempio in Congo o in Amazzonia. Si è spesso ipotizzato che lo sviluppo di energia idroelettrica e la conservazione degli ecosistemi fluviali si trovino in un conflitto irrisolvibile e in effetti, sottolineano Bizzi e colleghi nel paper, questi sviluppi rappresenterebbero una considerevole minaccia per i più grandi ecosistemi fluviali del mondo se implementati in modo non coordinato. Una pianificazione strategica, invece, permette di considerare l'eterogeneità dell'ecosistema in questi fiumi e dunque di ottenere energia idroelettrica sostenibile.
Oltre al Mekong, sono anche altri i casi a livello globale in cui un approccio di questo tipo potrebbe avere ricadute positive sull’ecosistema. Un esempio è il Rio delle Amazzoni, un bacino enorme che include diversi Paesi e in cui sono in fase di costruzione diverse dighe, non senza criticità. “Altri casi – continua Bizzi – sono il fiume Irrawaddy nel Myanmar, uno dei grandi fiumi della Terra ancora privi di barriere, forse uno degli ultimi. Pochissimi grandi fiumi della Terra sono senza dighe lungo il loro corso, e lì ci sono piani di costruzione nei prossimi anni”. Se ci concentriamo sull’Europa, qualche considerazione va fatta sui Balcani. “Ora stiamo lavorando sul fiume Vjosa in Albania – osserva il ricercatore –, che è uno dei pochi fiumi naturali rimasti, senza dighe e a canali intrecciati, molto ricco di vita e adatto a sostenere la biodiversità e gli habitat. Anche qui si sta pianificando la costruzione di dighe e la pressione in questa direzione riguarda tutti i Paesi dei Balcani”. Secondo Simone Bizzi, quelle citate sono tutte situazioni in cui potrebbe tornare utile una pianificazione strategica che tenga conto degli impatti cumulativi delle dighe sui processi fluviali, intesa dunque a contenere i possibili effetti negativi sull'ecosistema più che a scoraggiare la costruzione di nuove strutture.