Dighe, ma anche barriere minori come briglie, chiuse, tombinamenti, rampe e guadi ostacolano il naturale fluire dei fiumi europei, nel nostro continente probabilmente più che in altre parti del mondo. Sono i risultati di uno studio pubblicato su Nature che dimostra l’esistenza in Europa di circa 1,2 milioni di barriere fluviali. Un dato, questo, che rivela come lo stato di frammentazione dei nostri corsi d’acqua sia molto più elevato di quanto si pensasse in base alle stime esistenti. Utilizzando modelli predittivi e rilievi sul campo, i ricercatori hanno stimato che ci siano almeno 0,74 barriere per chilometro di fiume. “Molte di queste barriere sono obsolete e la loro rimozione è una grande opportunità di riqualificazione – sottolinea Carlos de Garcia de Leaniz, docente dell’Università di Swansea e coordinatore del progetto Amber, nell'ambito del quale si colloca l'indagine –. I nostri risultati rispondono alle esigenze della nuova strategia europea sulla biodiversità che mira a riconnettere almeno 25.000 chilometri di fiume europei entro il 2030”. Un passo importante in questo senso è stata la creazione del primo atlante delle barriere fluviali a scala europea.
I fiumi supportano alcuni degli ecosistemi più ricchi di biodiversità del mondo, ma anche alcuni dei più minacciati, sottolineano gli autori dello studio. L’elemento più evidente dell’impatto umano sui fiumi è proprio l'interruzione della connettività causata dalle barriere artificiali al flusso libero. Senza dighe, sbarramenti, guadi e altre strutture di questo tipo è difficile tuttavia immaginare di estrarre acqua, generare energia idroelettrica, controllare le inondazioni, traghettare merci o semplicemente attraversare corsi d'acqua. I fiumi forniscono servizi essenziali alla società, ma il loro uso da parte dell’uomo ha quasi sempre comportato la loro frammentazione.
Dello studio pubblicato su Nature e del programma quadriennale Amber di Horizon 2020, conclusosi quest’anno, abbiamo parlato con Simone Bizzi, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova, prima all’Environmental Intelligence Lab del Politecnico di Milano, che ha partecipato alle ricerche.
Guarda l'intervista completa a Simone Bizzi che ha partecipato allo studio pubblicato su "Nature". Servizio di Monica Panetto, montaggio di Elisa Speronello
La frammentazione dei fiumi europei
“Lo studio pubblicato su Nature ha permesso di quantificare la reale presenza di barriere lungo i fiumi europei. Abbiamo raccolto i database esistenti per le barriere fluviali tra i Paesi membri dell'Unione europea. Ad oggi non si possiede un database armonizzato degli sbarramenti fluviali, esiste solamente per le grandi dighe, dunque per strutture sopra i 15-20 metri”. I dati sono stati ottenuti dai vari istituti a livello regionale, provinciale e nazionale dei Paesi membri e hanno permesso di avere informazioni su circa 736.348 barriere in 36 Paesi (che risultano poi essere 629.955 se si tolgono quelle indicate due volte in database differenti). Il database relativo alle grandi dighe a livello europeo conta circa 6.000 barriere, riporta il docente: queste hanno sicuramente un impatto maggiore rispetto agli sbarramenti più piccoli, ma rappresentano evidentemente solo una frazione dell’esistente.
La maggior parte delle barriere nei fiumi europei, secondo quanto rilevato dal censimento effettuato, sono strutture costruite per controllare e deviare il flusso d'acqua o per aumentare il livello dell'acqua, come sbarramenti (30,5%), dighe (9,8%) e chiuse (1,3%), oppure sono state realizzate per stabilizzare i letti dei fiumi, come rampe e fondali artificiali (31,5%), o per consentire attraversamenti stradali, come canali sotterranei (17,6%) e guadi (0,3%). Le statistiche sull’altezza provengono invece solo da 117.371 barriere, le uniche delle circa 700.000 identificate a possedere questo tipo di informazione: sulla base di tali dati gli autori evincono che il 68% di queste strutture è alto meno di 2 metri e il 91% meno di cinque e ciò probabilmente spiega perché così tanti sbarramenti siano sottorappresentati nella maggior parte degli inventari.
“Le circa 700.000 barriere individuate sono in realtà una sottostima, anche significativa, del numero effettivo di sbarramenti presenti nei nostri fiumi”, spiega Simone Bizzi. Il gruppo di scienziati infatti, attraverso rilievi sul campo condotti su 147 fiumi europei, ha riscontrato 1.583 barriere lungo i 2.715 chilometri percorsi, 960 delle quali (61%) erano assenti dagli attuali inventari. Il numero di barriere registrate sul campo è stato in media 2,5 volte superiore a quello dei database esistenti. A fronte di questi risultati, utilizzando anche modelli predittivi, i ricercatori concordano nel ritenere che esistano almeno 1,2 milioni di barriere nei 36 paesi europei considerati.
Le densità di barriera più elevate sono state riscontrate nei fiumi dell'Europa centrale, le più basse invece nelle aree alpine più remote e scarsamente popolate. Corsi d’acqua relativamente non frammentati si trovano ancora nei Balcani, negli Stati baltici e in parti della Scandinavia e dell'Europa meridionale, ma questi richiedono una protezione urgente dall’eventuale costruzione di nuove dighe.
Bizzi osserva che in letteratura negli ultimi anni gli scienziati si sono concentrati soprattutto sulle grandi dighe e sul loro impatto, discutendo se siano maggiori i benefici (visibili a breve termine, come nel caso della produzione di energia idroelettrica) o le ripercussioni negative (che si avvertono invece su scale temporali decennali e che dunque spesso vengono sottostimate). Conclude il ricercatore: “Se si parla di frammentazione del sistema fluviale, siamo sicuri che le grandi dighe siano il problema principale? O piuttosto, gli sbarramenti inferiori ai cinque metri, che costituiscono più del 90% delle barriere fluviali, possono costituire in senso cumulato un problema maggiore o la vera causa della frammentazione di un sistema fluviale?”.
Effetti delle barriere sulla connettività fluviale
Le barriere costruite nei corsi d’acqua hanno molteplici effetti sui processi fluviali sia dal punto di vista biotico che del flusso di acqua e sedimento. “I sedimenti - continua Bizzi - sono la componente principale per definire la cosiddetta connettività di un sistema. Un bacino fluviale è esattamente come un corpo umano: c’è bisogno di una connettività corretta, sana, tra i vari comparti di cui è composto un ambiente fluviale. Nel caso dei processi fluviali, dunque, si parla soprattutto di connettività idrologica, di connettività dei sedimenti e di connettività per l’ecosistema. Qualunque tipo di sbarramento ha un effetto su questa connettività. Tutti conosciamo l’effetto delle grandi dighe: bloccano i sedimenti, sono una disconnessione completa per qualunque tipo di organismo, ma soprattutto alterano il ciclo idrologico dato che costruiamo gli sbarramenti per approvvigionarci di acqua o per difenderci dalle piene e per produrre energia idroelettrica”.
Gli sbarramenti minori, che sono i più diffusi, molto spesso hanno un impatto minore sulla connettività idrologica. Non alterano il flusso idrologico quanto le grandi dighe, ma hanno un impatto sulla connettività dei sedimenti e sicuramente sull’ecosistema: con uno sbarramento superiore al metro in un corso d'acqua, per esempio, la maggior parte delle specie ittiche non può più risalire e dunque si crea una disconnessione.
“Molte di queste barriere di piccole dimensioni sono state costruite anni fa, oggi sono obsolete, non sono assolutamente manutenute, e frequentemente non sappiamo nemmeno dove si trovano; la loro rimozione spesso sarebbe necessaria o utile o non comporterebbe nessun danno per i servizi ecosistemici che un fiume garantisce. Delle circa 700.000 barriere che abbiamo mappato tramite i database esistenti meno del 20% ha informazioni sulla loro altezza (parametro fondamentale per capire quanta disconnessione può creare) e sulla loro età (fondamentale per capire dove c’è più bisogno di manutenzione o di eventuali rimozioni). E spesso non ci sono notizie nemmeno sulla funzione: si sa pertanto che esiste uno sbarramento ma manca un’informazione fondamentale per la gestione”.
Secondo Bizzi dunque sapere dove si trovano, di che tipologia sono e quali finalità hanno le barriere lungo i fiumi è importante per capire quali possono essere rimosse e come possono essere gestite. Nel caso delle grandi dighe, per esempio, ci sono una serie di operazioni sia strutturali che di politiche gestionali che possono essere messe in campo per migliorare la connettività idrologica e quella dei sedimenti.
La Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030 e la connettività fluviale
La Strategia dell'UE sulla biodiversità per il 2030 stabilisce che, per raggiungere gli obiettivi della direttiva quadro sulle acque, serve ristabilire gli ecosistemi di acqua dolce e le funzioni naturali dei fiumi. “Uno dei modi per farlo – si legge nel documento – consiste nell'eliminare o adeguare le barriere che impediscono il passaggio dei pesci migratori e nel migliorare il flusso libero dei sedimenti: s’intende così ristabilire lo scorrimento libero di almeno 25.000 chilometri di fiumi entro il 2030 […]”. Ciò significa, spiega Bizzi, che si devono definire e identificare 25.000 chilometri di fiumi non antropizzati entro dieci anni: dovranno, dunque, essere rimosse le barriere obsolete o quelle che hanno più impatti negativi rispetto ai benefici che comportano. Per farlo però è necessario sapere dove sono collocate, quanto sono antiche e che funzioni hanno e in questo contesto si comprende il significato del progetto Amber e dello studio di recente pubblicato su Nature.
“La direttiva quadro sulle acque – sottolinea il ricercatore – è stata un grande passo avanti agli inizi degli anni 2000 nella gestione fluviale e chiede di guardare a tre componenti dell’ecosistema fluviale: alla componente chimica, alla componente biotica e alla componente idromorfologica. La componente idromorfologica è semplicemente un elemento di supporto, ragion per cui nei 15 anni in cui è stata implementata la direttiva quadro questo tipo di informazione non è stato riportato in modo corretto, sebbene ciò fosse stato richiesto ai Paesi membri dalla Commissione europea. La Strategia sulla biodiversità, dunque, offre l’opportunità di invertire la tendenza rispetto al modo in cui oggi monitoriamo i nostri fiumi, dato che questo influisce sul modo in cui li gestiamo. Se non possediamo i dati e non conosciamo lo stato dei nostri fiumi non possiamo nemmeno migliorare la nostra capacità di gestirli”.