SCIENZA E RICERCA
Fusione fredda: nessuna evidenza da nuove ricerche finanziate da Google
Trent'anni fa, nel 1989, due chimici dell'università dello Utah a Salt Like City, Martin Fleischmann e Stanley Pons, dichiararono di aver riprodotto in laboratorio la fusione fredda, quel processo che sappiamo alimentare l'energia del sole e che sarebbe fonte pressoché inesauribile di energia pulita. Sembrava ci fossero riusciti facendo passare della corrente elettrica attraverso degli elettrodi di palladio in acqua pesante (nelle molecole d'acqua al posto dell'idrogeno vi era un suo isotopo, il deuterio). Le densità di deuterio raggiunte tramite elettrolisi sarebbero state così elevate da far fondere i nuclei di deuterio tra loro. A questo fenomeno sarebbe stato associato quel rilascio di energia tipico delle reazioni di fusione nucleare, con la differenza che il risultato era stato ottenuto a temperature “ambientali” (fredde) e non “solari”.
Molti laboratori tentarono di riprodurre i risultati di quell'esperimento e nessuno ci riuscì. L'evento da allora venne ricordato come un caso da manuale di pregiudizio di conferma, in cui gli scienziati vedono nei dati quello che vorrebbero vedere, ma non quello che i dati dicono realmente. Ma l'assenza di evidenza non è evidenza di un'assenza.
Nel 2015 Google ha scelto di finanziare con 10 milioni di dollari un gruppo selezionato di 30 ricercatori per riaprire un fascicolo che considerava archiviato troppo in fretta. I risultati prodotti da questo gruppo di lavoro sono stati pubblicati pochi giorni fa per la prima volta su Nature. Nessuna evidenza di fusione fredda è stata trovata nei tre set sperimentale allestiti. Ai più questo potrebbe sembrare un esito deludente, e invece in questo non-risultato vi sono almeno tre aspetti molto interessanti.
Editorial: The fusion trail, although cooling, is not yet cold, leaving a few straws for optimists to clutch on to. https://t.co/a7dyWB4FbP
— nature (@nature) 29 maggio 2019
Il primo è che nella scienza non capita spesso che i risultati negativi vengano pubblicati su riviste prestigiose. Il fatto che quel dato effetto non sia stato trovato lì dove lo si è accuratamente cercato, è un'informazione preziosa da condividere con il resto della comunità scientifica. Solitamente questo non avviene, ma la ricerca finanziata da Google è una felice eccezione. Un risultato negativo, ottenuto con il massimo rigore metodologico e sperimentale, è un buon risultato.
In realtà i ricercatori lasciano uno spiraglio di speranza agli ottimisti e non escludono che le condizioni per ottenere la fusione fredda in laboratorio esistano: forse non sono state ancora riprodotte adeguatamente.
In secondo luogo, indagando l'ignoto può capitare di portarsi a casa qualcosa che non ci si aspettava. Il team messo in piedi da Google, che negli ultimi due anni ha prodotto 12 articoli scientifici, nell'ultimo lavoro ha testato tre set sperimentali. Uno prevedeva l'impiego di palladio e deuterio, un altro l'impiego di trizio (un altro isotopo dell'idrogeno) e un terzo l'utilizzo di idrogeno e polveri metalliche riscaldate. Secondo Matthew Trevithick, manager di Google intervistato su Nature da Elizabeth Gibney, i progetti hanno permesso di spingere più lontano la frontiera della ricerca: ad esempio sono stati sviluppati "i migliori calorimetri mai prodotti al mondo" per rilevare un segnale di calore in condizioni sperimentali estreme. Queste strumentazioni potranno venir impiegate in test futuri.
In terzo luogo, come riporta Philip Ball in un altro commento su Nature, la parabola della fusione fredda ci racconta che la componente sociologica della scienza è importante tanto quanto l'indagine di laboratorio. L'annuncio della presunta scoperta venne dato nel marzo del 1989 e nel giro di due mesi, a giugno, la fusione fredda era già stata derubricata a tipico esempio di scienza farlocca o addirittura “malata”. Nature non pubblicò mai il lavoro di Fleischmann e Pons, che venne invece pubblicato su un'altra rivista (The Journal of Electroanalytical Chemistry); pubblicò invece lavori che sconfessavano quello dei due chimici di Salt Lake City e gran parte della comunità scientifica si convinse che quella sulla fusione fredda era una “ricerca senza senso”.
Eventi controversi portano le comunità a polarizzarsi intorno a opinioni o totalmente a favore o totalmente contrarie. La storia della fusione fredda conferma in pieno questo schema che oggi vediamo validato ben al di fuori della sola comunità scientifica. Fleischmann e Pons non fecero nulla per smorzare le critiche a loro dirette, dato che fecero ostruzionismo sulla condivisione dei metodi del loro esperimento. L'università di Utah pensò subito di monetizzare la scoperta (il progetto ovviamente non andò mai a buon fine), e neanche questo favorì il dialogo. Anche oggi, scrive Philip Ball, quella piccola comunità ancora convinta che la fusione fredda sia un fenomeno vero, ma elusivo, non si accontenterà dei nuovi risultati negativi pubblicati.
Alcuni oggi, come David Williams, elettrochimico dell'università di Auckland in Nuova Zelanda, pensano che i ricercatori finanziati da Google abbiano fatto davvero un ottimo lavoro. Altri come Frank Close, fisico teorico dell'università di Oxford, hanno dichiarato che se si trattasse dei loro soldi non investirebbero un centesimo in quest'impresa, che la comunità scientifica aveva già declassato 30 anni fa con ottime motivazioni.
Anche la scienza è un'impresa umana, soggetta a umori e dissapori che ne condizionano il percorso, e in quanto tale non è scevra da molte delle capricciose imperfezioni che connotano la nostra specie.