Tra i punti deboli della nostra società che questa emergenza sanitaria ha messo in luce vi è, sicuramente, quello dell’universo carcerario. Fin da subito, infatti, il sovraffollamento che da decenni affligge gli istituti penitenziari italiani si è rivelato un pericoloso ausilio per la diffusione del contagio, e si è dovuto precipitosamente correre ai ripari.
Il governo ha deciso di potenziare il ricorso alla detenzione domiciliare, soluzione che ha permesso la scarcerazione di circa 5.000 condannati, dall’inizio di marzo ad oggi. Si tratta di un provvedimento necessario, ma non sufficiente a sbloccare una situazione ormai incancrenita.
Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Elisa Speronello
Gherardo Colombo – ex-magistrato, saggista, che da anni si occupa di questi temi – ci ricorda come, in Italia, si ricorra troppo spesso al carcere, misura che invece dovrebbe costituire l’extrema ratio della pena, un provvedimento da prendere soltanto qualora la sanzione non possa essere scontata in alcun altro modo che non sia lesivo per la collettività.
La Costituzione sancisce, all’art. 27, che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, e che devono “tendere alla rieducazione del condannato”: ma spesso, in una realtà come quella penitenziaria, accade che il percorso rieducativo non sia, nei fatti, praticabile. Perché, dunque, sia preservata la dignità delle persone recluse, è necessario ripensare in modo radicale le modalità in cui lo Stato risponde a chi violi le regole del vivere sociale.