SCIENZA E RICERCA

È possibile stimare l’impatto della chiusura di scuole e università sull’indice Rt?

Spesso si è fatto notare come i governi di tutto il mondo abbiano risposto in modo tutt’altro che uniforme alla pandemia. A un estremo potremmo collocare le misure draconiane della Cina, che ha implementato rigidi sistemi di sorveglianza e isolamento per controllare la diffusione epidemica. Oggi in Cina la vita, e l’economia, sembrano tornate alla normalità.

All’altro estremo potremmo mettere la permissività della Svezia, che fino almeno a quest’inverno, ha confidato nella responsabilità dei suoi cittadini senza imporre mai un lockdown o forti misure restrittive. Nelle ultime settimane però il Paese scandinavo ha registrato un’impennata nei contagi (non verificatasi nelle vicine Norvegia e Finlandia) e persino il Re di Svezia ha criticato pubblicamente le scelte del suo governo.

Tra la strategia del pugno di ferro cinese e il lasseiz faire svedese, si collocano un’infinità di modalità d’intervento intermedie adottate da ciascun Paese, europeo e non, a seconda della virulenza dell’epidemia e del contesto politico nazionale.

Diversi studi già pubblicati (relativi a Europa, Cina e Stati Uniti) hanno mostrato che l’adozione di provvedimenti restrittivi, complessivamente, è risultato efficace nel contenimento dei contagi, e di conseguenza nell’abbassamento dell’indice di riproduzione Rt. Tuttavia ad oggi c’è ancora notevole incertezza a riguardo dell’efficacia relativa dei singoli interventi, siano essi la chiusura degli esercizi commerciali o delle scuole.

Il 15 dicembre è stato pubblicato un paper su Science che come suggerisce il titolo, Inferring the effectiveness of government interventions against COVID-19, tenta di quantificare gli effetti dei singoli interventi sul contenimento della pandemia. Il lavoro a prima firma di Jam Brauner, del dipartimento di computer science e del Future Humanity Institute dell’università di Oxford, considera le misure adottate da 41 Paesi (34 europei e 7 non europei) nella prima ondata, tra il 22 gennaio e la fine di maggio 2020.

Le misure restrittive sono raggruppate sotto l’acronimo NPI, che sta per Non Pharmaceutical Interventions (interventi non farmaceutici). Possono essere appunto il lockdown generalizzato, o interventi più mirati come la chiusura delle scuole e delle università, il divieto di assembramento, la chiusura di tutte o di alcune attività commerciali non essenziali, la raccomandazione a non uscire di casa. Lo studio di Science ne prende in considerazione principalmente 7.

Naturalmente riuscire a capire quanto l’abbassamento dell’indice Rt sia dovuto a un intervento invece che a un altro non è affatto cosa semplice. “Se tutti i Paesi avessero implementato lo stesso insieme di NPI lo stesso giorno, l’effetto di ogni signolo NPI non sarebbe identificabile” fanno notare gli autori. “Tuttavia, la risposta a CoVid-19 è stata tutt’altro che coordinata: diversi Paesi hanno implementato diverse combinazioni di NPI, con tempistiche diverse e in ordine sparso”.

È stata quindi proprio la mancata uniformità di intervento dei Paesi, paradossalmente, che ha permesso ai ricercatori di misurare l’impatto delle singole misure.

Raccogliendo e analizzando i dati dei contagi e dei decessi in diversi Paesi, assieme ai dati sull’introduzione delle restrizioni, l’efficacia degli interventi viene misurata come percentuale di riduzione dell’indice Rt.

Lo studio trova che la maggiore efficacia si ottiene limitando i raggruppamenti a 10 persone o meno, il che porta a una riduzione del 42% dell’indice Rt (con un margine di errore che va dal 17% al 60%). Il secondo intervento più efficace è invece la chiusura delle scuole e delle università, insieme, che porta a una riduzione dell’Rt del 38% (qui il margine di incertezza varia dal 16% al 54%). Non è stata considerata invece l’efficacia della chiusura delle sole scuole o delle sole università.

Di moderata efficacia risultano altri interventi, come la chiusura della maggior parte degli esercizi non essenziali (27%, con intervallo da -3% a 49%). Limitata efficacia invece risulta avere, secondo lo studio, la raccomandazione di rimanere a casa (13%, intervallo da -5% a 31%).

A metà strada tra la moderata e l’elevata efficacia si colloca limitare i raggruppamenti a 100 persone o meno (34%, con intervallo da 12% a 52%); tra la moderata e la limitata efficacia invece si inseriscono limitare i raggruppamenti a 1000 persone o meno (23%, con intervallo da 0% a 40%) e la chiusura di alcuni esercizi mirati come bar, ristoranti e locali notturni (18%, intervallo da -8% a 40%).

Come si può notare il margine di errore di queste stime è molto ampio, spesso intorno ai 40 punti percentuale, a volte anche superiore. Questa incertezza deriva da una serie di limitazioni che gli autori prendono in debita considerazione, tra cui la frammentarietà dei dati disponibili e la struttura degli stessi modelli epidemiologici che potrebbe riflettere “scelte arbitrarie” e non oggettive (in altri termini di fronte all’incertezza bisogna compiere delle scelte, e non sempre queste scelte portano a rappresentare tutto ciò che ci sarebbe da cogliere nella realtà che si vuole riprodurre nei modelli).

Tuttavia, nonostante le difficoltà metodologiche, a conclusioni simili è giunto uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour lo scorso novembre da un gruppo della Medical University di Vienna. Quel lavoro poneva al primo e al secondo posto, per efficacia in termini di riduzione dell’indice Rt, gli stessi due NPI individuati dal lavoro di Sicence, ovvero vietare anche piccoli assembramenti e la chiusura delle istituzioni dedite all’istruzione.

In questi primi giorni del 2021, al ritorno da vacanze natalizie che sono state contraddistinte da restrizioni agli spostamenti in quasi tutta Europa, si discute molto, tra le altre cose, dell’opportunità o meno della riapertura delle scuole e delle conseguenze che si potrebbero registrare sull’andamento dei contagi.

Naturalmente il rischio rappresentato dalla riapertura dei luoghi dell’istruzione si estende ben oltre le aule dove si svolgono le lezioni, che anzi sembrano essersi rivelate spazi in cui i controlli e il rispetto delle regole di protezione e distanziamento hanno portato a un’adeguata prevenzione della diffusione dei contagi. Assieme al mondo della scuola e delle università infatti si mette in moto, è il caso di dirlo, buona parte del mondo dei trasporti e altri ambiti in cui la socialità porta a un aumento dei contatti che è difficile controllare.

I due studi qui analizzati indipendentemente concludono che tra gli interventi più efficaci nel contenere la diffusione del virus c’è la chiusura delle scuole e delle università. Tuttavia entrambi si riferiscono alla prima ondata ed entrambi presentano limitazioni metodologiche di cui va tenuto conto. “Chiudere scuole e università insieme sembra aver ridotto in modo significativo la trasmissione, ma questo non significa che riaprirle debba necessariamente risollevare la curva dei contagi” fanno notare gli autori dello studio su Science. “Il nostro lavoro offre conoscenze in merito a quali ambiti della vita pubblica necessitino di maggior intervento per contenere il virus, in modo che le attività possano continuare nonostante la pandemia”. E concludono: “le nostre stime non devono essere prese come l’ultima parola sull’efficacia degli interventi non farmaceutici (NPI)”.

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