Una piantagione di tè
Il tè è un arbusto legnoso, siamo da lunghissimo tempo abituati a consumarne piacevolmente le foglie (con vari gradi di lavorazione, ossidazione, “fermentazione”); viene bevuto per infuso o decotto, dopo un procedimento di studiate temperature e durate, la conseguente versione fredda è molto recente; in alcune case si prepara sempre alla stessa ora del giorno, circa, perlopiù; in alcuni contesti o situazioni viene miscelato con spezie, erbe o essenze, magari abbinandolo con meditati cerimoniali e cibi, talora connessi ai variabili aromi che possono sprigionarsi dopo l’essiccazione. Gli effetti del consumo sono alimentari, psichici (contiene caffeina, fra l’altro), sociali, culturali. La denominazione occidentale deriva dalla pronuncia cinese originaria. Oggi il tè è la bevanda più diffusa e consumata nel mondo da noi umani, dopo l’acqua ovviamente, prima di caffè, birra, vino.
La particolare specie del tè si chiama Camellia sinensis, appartiene alla stessa famiglia e allo stesso genere delle camelie, non è arrivata in Inghilterra e in Europa per caso. Nota in Cina e là quasi esclusivamente coltivata per millenni, importata in Occidente dai mercanti portoghesi e olandesi sin dal XVII secolo, fu poi letteralmente rubata dagli inglesi. La pianta era già da tempo nei loro gusti e commerci: per circa duecento anni la Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva in India il monopolio della coltivazione del Papaver somniferum (papavero da oppio) e lo forniva ai cinesi in cambio del tè, monopolizzato dall’impero cinese. A un certo punto della storia commerciale, gli inglesi decisero di gestire autonomamente le tecniche di produzione e di procurarsi pertanto le migliori piante per coltivarle nella “loro” India. Allo scopo usarono una spia.
Serviva alla monarchia imperiale un individuo competente di Cina, coraggioso e pronto a tutto. Lo trovarono ben presto, era Robert Fortune (1812-1880), rinomato geniale botanico britannico che nel 1843 aveva pubblicato il racconto di un primo soggiorno nella Cina settentrionale, lungo tre anni, inviato dalla Royal Horticultural Society e ben accolto. Gli diedero una sostanziosa cifra e partì nel 1848, la missione consisteva nell’andare di persona a raccogliere semi e piante dove crescevano gli alberelli migliori nelle regioni della Cina meridionale. Si travestì, viaggiò là molto in barca, divenne ladro gentiluomo, constatò che l’arbusto era coltivato ovunque, scoprì che l’unica differenza fra il tè nero e il tè verde consiste nel processo di fermentazione, erborizzò e raccolse anche altre specie, ebbe una rocambolesca vita di successo. Tre anni dopo ventimila piante del tè arrivarono a destinazione e vennero coltivate nei contrafforti dell’India. Iniziò un’altra storia della bevanda.
Il tè è la prima pianta di cui la biologa francese, viaggiatrice, scrittrice e direttrice aggiunta dei giardini botanici di Grand Nancy (Università di Lorraine) Katia Astafieff (1975) ci racconta l’umana vicenda migratoria in Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici (traduzione di Sara Prencipe), Add Torino, 2020 (orig. 2018), pag. 200 euro 16. Si tratta di un originale spigliato saggio di divulgazione scientifica etnobotanica su dieci coppie d’avventura: una specie di pianta, connessa geograficamente a un antico ecosistema, viene storicamente relazionata a un singolo individuo, o a un paio di noi, nomadi del sapere e cercatori d’oro verde, cruciali (fra pur tanti sapiens) per farla divenire poi globalmente familiare a tutti. Dieci viaggi nella geografia e nella storia, dunque, con stile avvincente, dotti dati e citazioni, qualche aneddoto e brevi finestre d’approfondimento. In fondo bibliografia scelta e indice di nomi (piante, luoghi, ecosistemi, persone). Migrando, esplorando e viaggiando, la specie meticcia ha reso meticcio quasi ogni ecosistema: è scientifico, oltre che divertente, saperlo.
L’avventura del tè viene narrata per prima. Seguono: il frutto tondeggiante (Fragola, fraisier) riportato dal Cile da un corsaro seducente (nel 1714, il francese Amédée-François Frézier, 1682-1773, per caso la pronuncia è la stessa); la Peonia “più bella” (selvatica o ibrida?) trasferita ancora dalla Cina a tempo di rock con l’austriaco Josef-Franz (indi americano) Joseph Rock (1884-1962); l’ascesa e il declino di una radice canadese (il Ginseng americano) e i meriti del chirurgo della Marina francese Michel Serrazin (1659-1734, naturalizzato canadese in Québec); il caso fortunato di un albero (Hevea brasiliensis) dell’Amazzonia, utile alle piscine, agli ospedali e… alla linea, e dell’astuto ingegnere francese in Guyana François Fresneau de la Gataudière (1703-1770) che ricavò gomma naturale o Caucciù dalle note secrezioni di lattice; l’avventura fumosa di un’erba non particolarmente ortodossa (il tabacco, Nicotiana tabacum) riportata dal Brasile dal diplomatico francese Jean Nicot (1530-1600) e “scoperta” dal curioso monaco André Thevet (1516-1590); il favoloso destino del piccolo frutto verde (kiwi, Actinidia chinensis) e dell’astuto gesuita Pierre Nicolas Le Chèron d’Incarville (1706-1757); l’indagine su una pianta venuta dal freddo, il Rabarbaro e sul biologo tedesco Simon Pallas (1741-1811); il fiore più grande e puzzolente (Rafflesia) e due inglesi, l’amministratore coloniale Thomas Stamford Raffles (1781-1826) e il naturalista girovago Joseph Arnold (1782-1818); l’altissima conifera americana Sequoia sempervirens in compagnia del chirurgo e naturalista scozzese Archibald Menzies (1754-1842).
Il volume ribadisce implicitamente una nozione che si fatica a dare per scontata: le piante si muovono e hanno un loro articolato fenomeno migratorio da studiare e comparare. La questione è antica, emersa con forza contemporanea in tanti studi scientifici legati ai cambiamenti climatici antropici globali. Proprio nei giorni scorsi è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications uno studio congiunto di botanici del Museo Civico di Rovereto e dell'Università di Padova, da cui emerge che le orchidee alpine, soprattutto alcune specie “selvatiche”, sia per locali cambiamenti insostenibili dell'utilizzo antropico del suolo che per l'innalzamento globale della temperatura, negli ultimi 30 anni difendono la propria sopravvivenza “scalando” la montagna. Le specie che si trovavano a una altitudine inferiore si stanno spostando e si trovano ora a quote superiori, alla ricerca di temperature medie più basse, per qualcuna una migrazione di ben due metri l’anno.
Piante sopravvivono così, non sempre adattandosi facilmente, certamente non potendo né ridiscendere né continuare a salire all’infinito, sulla dura roccia ancora non crescono. Alcune specie sono a rischio estinzione. Monitoraggi analoghi sono stati effettuati e analoghi risultati verificati in Piemonte, nel Regno Unito (dove le orchidee cambiano anche latitudine, salgono verso nord nel nostro emisfero) e in altre nazioni o ecosistemi montani. Osservazioni simili su varie specie di piante alpine sono riportate da tutti i cinque rapporti dell’IPCC. Ora su Nature Communications con l’articolo scientifico “Consistent population declines but idiosyncratic range shifts in Alpine orchids under global change” si parla delle Dolomiti, delle province di Trento e Bolzano, del parco naturale Gruppo di Tessa. In Val di Valles la Nigritella rhellicani è stata individuata salita a 3005 metri sul livello del mare, fate voi.
Le piante sono sessili e hanno trovato il loro modo di migrare, da prima degli animali e da prima degli umani. Pure, ovviamente, da prima di noi sapiens, che poi abbiamo reso umano quasi ogni ecosistema, a un certo punto intessendo e adattando proprio con piante e animali complessi rapporti di reciproche domesticazioni. Già Charles Darwin si accorse che le specie addomesticate animali (cani e gatti in particolare) hanno caratteristiche uniche e intuì che ci sono caratteristiche comuni a tutte le specie addomesticate. Addirittura notò che pure noi esseri umani abbiamo alcune di queste (il viso addolcito, la faccia piatta) e manteniamo i caratteri giovanili per più tempo. Ci siamo, insomma, auto-addomesticati. Questa intuizione è rimasta sotto traccia e oggi è un tema molto importante perché sappiamo che Darwin aveva ragione. Dietro a questi tratti c’è una caratteristica biologica comune. Un lavoro uscito a gennaio 2020 su Science Advances ha trovato un gene che è alla base di queste caratteristiche e incide sui tratti della domesticazione.
Con la svolta agricola neolitica le piante cominciarono a viaggiare e a diffondersi insieme ai coltivatori contadini, a migrare non solo con i propri semi ma anche accanto agli umani conquistati. Considerando il successo evolutivo globale che hanno ottenuto piante come frumento, riso e mais, possiamo dire che la domesticazione è stata reciproca: noi abbiamo addomesticato le piante, e loro hanno sfruttato noi come vettori di diffusione. Era già accaduto per il cane e accadrà poi per altri animali domestici. In ciascuna delle zone di origine, la reciproca domesticazione fra umani e specie animali e vegetali si è svolta in modo diverso, a seconda del bioma e delle specie domesticate, della geografia e dell’orografia, spesso in modo contingente. Con la rivoluzione industriale anche la domesticazione ha preso ritmi e modi accelerati e tecnologici, le piante da bere (come il tè o la vite) hanno avuto successo manifatturiero planetario. Brindiamoci sopra a casa, a Natale e Capodanno.