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Durante i suoi comizi brandisce una motosega, scatenando urla di approvazione tra i suoi sostenitori, estasiati dal “coraggio” che mostra nel voler distruggere le istituzioni. E questo già la dice lunga sullo spessore della proposta politica di Javier Milei, ex docente di economia, populista di estrema destra, integralista del liberalismo più sfrenato nel solco già segnato da Trump e Bolsonaro, e candidato, peraltro con buone chance di successo, alla presidenza dell’Argentina, con le elezioni ormai alle porte: il primo turno di votazioni si terrà domenica prossima, 22 ottobre, data che per pura casualità coincide con il suo 53° compleanno. Lo stile di Milei consiste nel mostrare un’incontenibile furia, soprattutto quando parla dei politici, della “casta”. Sguardo e capigliatura alla “Arancia meccanica”, è istrionico, provocatorio, sgarbato. Eccentrico nel look e nella sostanza dei suoi discorsi arruffati. Nei comizi va sempre a braccio e sempre, puntualmente, finisce verbalmente fuori strada, provocando sconcerto tra i suoi avversari e una piacevole estasi da “ventata d’aria fresca” tra i suoi supporter. Come quando ha sostenuto che la Banca Centrale argentina non dovrebbe esistere («bisognerebbe darle fuoco per porre fine all’inflazione», ha anche aggiunto), o che «i politici sono ladri che vivono come monarchi, dovrebbero essere presi a calci in c…», o ancora quando ha definito lo Stato argentino «…un’organizzazione criminale che si finanzia attraverso le tasse prelevate alle persone con la forza». Per non parlare del traffico di organi, che Milei ha definito «un mercato come tanti altri». O di quando si è definito “professore di sesso tantrico”. La sua proposta politica è una somma di provocazioni e di slogan estremizzati: meno tasse, meno Stato, meno programmi di assistenza, privatizzazione delle aziende pubbliche. Vuole “dollarizzare” l’economia, nel senso di adottare il dollaro USA come valuta ufficiale dell’Argentina. È contrario all’aborto, alla definizione dei diritti delle donne, contrario a qualsiasi forma di educazione sessuale nelle scuole. Vorrebbe vietare l’ingresso in Argentina agli stranieri con precedenti penali ed espellere chi commette reati. Favorevole all’uso indiscriminato delle armi. Nega l’esistenza di una crisi climatica («È una menzogna del socialismo»), ossessionato proprio dal socialismo, che descrive come “il male assoluto”. Fin da giovane, quando frequentava il liceo a Sáenz Peña, un sobborgo di Buenos Aires, era stato soprannominato el loco, il matto, proprio per i frequenti e incontrollabili scatti di rabbia che sono poi diventati il marchio di fabbrica della sua carriera politica. Pochi giorni fa è arrivato a minimizzare le vittime durante il periodo della dittatura, sotto il governo militare che ha guidato il paese dal 1976 al 1983, facendo infuriare sia le famiglie degli scomparsi sia i sopravvissuti: «Apprezziamo l’idea della memoria, della verità e della giustizia, quindi partiamo dalla verità: non ci sono state 30.000 vittime, ce ne sono state 8.753». Gli ha risposto Taty Almeida, fondatrice del gruppo Madri di Plaza de Mayo: «Èassolutamente ripugnante, un eterno insulto alla memoria dei nostri figli». Il quotidiano britannico Guardian, in un editoriale non firmato pubblicato pochi giorni fa, è arrivato a definirlo “un pericolo reale per la democrazia argentina”.
Corsa a tre tra el loco, la lady di ferro e ventajita
Javier Milei è il candidato presidenziale di La Libertad Avanza, una coalizione di formazioni ultraconservatrici e di estrema destra, dichiaratamente schierate contro il “sistema”. E al momento, secondo i sondaggi, è in testa alle preferenze, con percentuali che si aggirano mediamente oltre il 30%. Una presenza scomoda per gli altri due candidati che ambirebbero a sostituire il presidente uscente, Alberto Fernandez, di centro-sinistra, peronista (ammesso che la definizione abbia ancora oggi un senso univoco), assai criticato in patria per la gestione dell’ennesima crisi economica e per una generale mancanza di trasparenza nella sua azione politica, anche per la presenza ingombrante, come vicepresidente, di quella Cristina Kirchner davvero troppe volte attraversata da sospetti e scandali di corruzione. Come “volto nuovo” il governo uscente ha scelto di puntare sull’attuale ministro dell’Economia, Sergio Massa. La rivista economica americana Forbes lo descrive così: «Sergio Massa è sempre stato un personaggio divisivo in Argentina, in particolare all’interno della coalizione di governo, il Frente de Todos. Carismatico ed energico, è stato accusato di essere eccessivamente opportunista ed estremamente ambizioso. L’ex presidente Macri l’aveva soprannominato ventajita, che si traduce approssimativamente in “piccolo vantaggio”. Non ha mai nascosto le sue intenzioni di arrivare alla presidenza». I suoi detrattori hanno intinto la fantasia nella sua “ambivalenza politica” trasformandolo in protagonista di innumerevoli “meme” satirici. Il centro-destra invece schiera Patricia Bullrich, 67 anni, emblema di una profonda metamorfosi politica: da un passato da guerrigliera di sinistra (militava nei Montoneros, il braccio armato del peronismo rivoluzionario) che le è valso un lungo esilio, fino a diventare ministro della Sicurezza durante l’ultimo governo di destra (2015-2019) di Mauricio Macri. L’hanno definita “il falco” o “la lady di ferro”, per la sua intransigenza, verbale, mostrata contro crimine e corruzione. E per la sua determinazione nel sostenere la necessità di ricostruire il paese fin dalle sue basi: «Dovremo usare la dinamite: un processo indispensabile che distruggerà e disarmerà l’economia che il kirchnerismo ha creato», ha sostenuto. « Non c’è più spazio per misure “tiepide”».
L’Argentina affronta l’ennesima catastrofe economica
Bullrich evoca la dinamite, Milei brandisce la motosega: evidentemente in Argentina le immagini “forti” dominano la campagna elettorale. Del resto la situazione del paese, soprattutto sotto il profilo economico, è ancora una volta drammatica. L’inflazione è fuori controllo: l’incremento mensile dei prezzi al consumo è stato del 12,7%, il che porta l’inflazione del 2023 al 103%, mentre su base annua (calcolata sugli ultimi 12 mesi) l’incremento è del 138%, il dato più alto degli ultimi trent’anni. La settimana scorsa la banca centrale argentina ha alzato il tasso di interesse di riferimento del paese dal 118% al 133% proprio nel tentativo, illusorio, di contrastare la crescita dell’inflazione. Il peso argentino è in caduta libera, dopo aver superato la soglia psicologica dei 1000 pesos per dollaro Usa. Il Pil argentino è di gran lunga il peggiore rispetto a tutti i paesi confinanti (Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay). E, soprattutto, sta dilagando la disperazione. Nel primo semestre del 2023 il tasso di povertà ha toccato il 40,1% dei circa 46 milioni di abitanti, secondo i dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica (Indec). Non che le crisi economiche siano una notizia in Argentina: la storia del paese sudamericano, negli ultimi 70 anni, è costellata di stagnazioni, drammatici default (a partire dai Tango Bond del 2001) nonostante i continui prestiti elargiti dal Fondo Monetario Internazionale. Scrive l’agenzia di stampa britannica Reuters in un recente approfondimento: «L’Argentina e il’FMI condividono una storia difficile che dura da sette decenni e sembra che le cose possano peggiorare. Solo cinque anni fa, l’Argentina è diventata il più grande debitore del Fondo Monetario, (con 43,7 miliardi di dollari, seguita dall’Egitto, con 16,6 e dall’Ucraina, con 11,8) ricevendo un piano di salvataggio di 57 miliardi di dollari per aiutare il governo favorevole al mercato dell’allora presidente Mauricio Macri a uscire da una crisi economica segnata da un’inflazione elevata e da un deficit di bilancio abissale. Ma quel programma non è riuscito a rimettere in piedi la seconda economia più grande del Sud America».
L’ennesimo disastro economico fa il paio con lo sfaldamento di una politica che non ha mai dato l’impressione di saper davvero affrontare (per incompetenza o per interesse personale) una crisi così profonda, di poter incidere, di riuscire a invertire il corso degli eventi. Ed è tra queste pieghe che s’insinuano Milei con la sua motosega e Bullrich con la dinamite: nel tentativo d’intercettare la disperazione dei disperati, perché “tanto peggio di così non può andare”, il voto di chi ha esaurito la fiducia, di chi davvero non ce la fa più, per questioni pratiche, non ideologiche. Juan Grabois, leader sociale argentino, scrittore ed esponente della sinistra, paragona Milei al pifferaio magico di Hamelin: «L’elezione di questa “figura del caos" avrebbe conseguenze disastrose per una nazione che sta già vivendo la sua peggiore crisi finanziaria dal crollo del 2001. I poveri soffrirebbero di più. Ma capisco perfettamente perché molti lavoratori sono stati attratti da Milei, essendo stati economicamente distrutti dalle due forze politiche tradizionali che hanno governato negli ultimi due decenni. Sono tutti stanchi. C’è come una sorta di tentazione suicida. Non è che pensino che Milei vincerà e che tutto migliorerà. È che vogliono che tutto vada all’inferno. Si tratta di bruciare la terra e ricominciare da zero. Non hanno più nulla da perdere».
La strategia di Massa: ballottaggio contro la “minaccia” Milei
Poi c’è Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica, politico navigato che spera di massimizzare il suo consenso proprio sfruttando la polarizzazione estrema degli altri due candidati. Lo scenario ideale, per Massa, sarebbe quello di sopravanzare Bullrich al voto di domenica prossima per poi sfidare “el loco” Milei al ballottaggio, dove potrà poi puntare sull’argomento della paura, della minaccia, del rischio estremo di far entrare alla Casa Rosada quello strambo personaggio senza alcuna preparazione che si autodefinisce “anarco-capitalista”, per ottenere l’appoggio anche della destra non estrema, non populista. E magari dell’elettorato cattolico, visto che Milei non lesina accuse anche contro Papa Francesco, definito a più riprese “un imbecille”, “un comunista”, “il rappresentante del maligno sulla Terra”. Come scrive il New York Times: «Parole audaci per un uomo che aspira a essere il presidente dell’Argentina, dove quasi due persone su tre si definiscono cattoliche, dove lo stato è ufficialmente cattolico e il papa argentino è, per molti, un eroe nazionale».
Secondo l’ultimo sondaggio, realizzato dalla rete televisiva spagnola RTVE, la partita si gioca sul filo dei decimali. Javer Milei è dato in testa con il 30,6%, subito dietro Sergio Massa con il 29,6%, più staccata Patricia Bullrich, con il 24,4% (gli altri candidati non dovrebbero spostare la corsa a tre). E il meccanismo elettorale argentino funziona così: se un candidato raggiunge il 45% dei voti viene subito dichiarato vincitore. Se non riesce a raggiungere la soglia, ma arriva al 40% con un margine di 10 punti rispetto al secondo classificato, sarà ugualmente eletto presidente. Se nessuna di queste soglie verrà raggiunta, i due candidati più votati andranno al ballottaggio, già fissato per il prossimo 19 novembre. Ed è la soluzione che, a oggi, sembra più verosimile.