SCIENZA E RICERCA

L'editoriale. Siccità: possiamo chiamarla calamità?

È iniziata da pochi giorni l’estate. E ovunque leggiamo della siccità: c’è un caldo torrido, manca l’acqua, il fiume Po è in secca così come altri fiumi. Iniziano i primi conflitti locali, che coinvolgono comunità montane e di pianura. Chi gestisce i laghi non vuole rilasciare l’acqua, gli agricoltori in pianura invece chiedono misure eccezionali, nuovi bacini, soluzioni d’emergenza. E si chiede lo stato di calamità.

Io però vorrei proporvi questa domanda un po’ provocatoria: che cos’è una calamità? Sono andato a vedermi la definizione dell'enciclopedia Treccani. La parola deriva da calamitas, una sventura, una disgrazia. Si intende solitamente, nella radice latina, un disgrazia collettiva, una carestia, una malattia che colpisce le piante. Nella sua etimologia, comunque, questa parola è legata a qualcosa di imprevedibile, di imponderabile, di ineluttabile. Qualcosa di legato a una volontà divina, a una punizione divina…

E allora quello che sta succedendo adesso è una calamità? Assolutamente no, perché era stata ampiamente prevista, da tutti i modelli climatici, da 20 anni a questa parte. Modelli che indicavano che con l'aumento della temperatura terrestre di 1° C e oltre, queste sarebbe state le conseguenze. Sono state fatte previsioni regione per regione, e quindi anche per il Mediterraneo. E dunque potevamo sapere che sarebbe successo esattamente quello che sta accadendo all'Italia, che è proprio in mezzo al Mediterraneo. Similmente, sappiamo da decenni che dalla fonte al rubinetto si perde in media il 40% dell’acqua e dunque gli sprechi sono ben noti da tempo, da decenni. E dunque tutto questo può essere considerato calamità? No. È la normalità.

Dovremmo smetterla di pensare in termini di emergenza, di calamità. Smettere di far finta di sorprenderci per quello che sta accadendo e invece pensare che questa è la normalità già adesso. E sarà sempre più la normalità, purtroppo, nei prossimi anni.

Dobbiamo imparare innanzi tutto che soluzioni sempre e solo di emergenza non potranno funzionare. Ogni volta cerchiamo una soluzione improvvisata per far fronte a un problema globale che richiede interventi sistemici e lungimiranti. Che, in due parole, significano riduzione veloce delle emissioni e dei consumi e sprechi di acqua.  

L’altro aspetto che mi colpisce molto è il nostro provincialismo, il nostro localismo. Mentre noi ci lamentiamo, in Pakistan sono stati superati i 50 gradi, e ci sono persone che muoiono di colpi di calore per strada. In altri paesi ci sono situazioni ancora più difficili. 

E dunque questa settimana vi consiglio la lettura di un editoriale molto bello, uscito su Nature a firma di un'autrice originaria della regione del Sundarbans, la foresta di mangrovie della parte occidentale del Bengala, in India.  

Lei si chiami Aditi Mukherji, è una scienziata, ed è una delle due co-autrici che coordinano il capitolo dedicato all’acqua nel recente rapporto IPCC. Nel suo editoriale (leggibile integralmente qui: Climate change: put water at the heart of solutions), Mukherji fa vedere quanto il la crisi climatica stravolga i normali equilibri legati alla distribuzione e disponibilità di acqua. Racconta anche di come addirittura alcuni interventi pensati per ridurre le emissioni possono al contrario incidere su un aumento dei consumi di acqua, quando sono applicati malamente. Spiega perché le siccità, i diluvi, la variabilità nelle precipitazioni peggioreranno e diventeranno sempre più frequenti.

E nella seconda parte di questo editoriale sottolinea di nuovo quanto leggiamo ormai ogni settimana e cioè che tutto ciò è molto ingiusto. Perché chi ha contribuito quasi per nulla a questa situazione di riscaldamento climatico sta pagando le conseguenze peggiori, che lei elenca e quantifica. Dopo il colonialismo e le politiche neoliberiste che hanno sfruttato la sua terra, sottolinea Mukherji, il cambiamento climatico rischia di dare ora il colpo di grazia.

Ecco, loro stanno molto peggio di noi e da tempo hanno smesso di pensare che questa sia una calamità imprevista. 

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