Approfitto delle vacanze di solito per rileggere.
Ogni anno riconsidero un autore, provando a dare, per quanto possibile, un minimo di sistematicità alla lettura.
Quest’anno ho deciso di riprendere in mano i libri di Winfried Georg Sebald, editi in italiano da Adelphi.
Quella di Sebald è una scrittura straordinariamente originale. Un incrocio di saggistica, di memoire, di narrazione – accompagnata spesso da fotografie e immagini – che è forse uno degli elementi più peculiari della letteratura della fine del Novecento.
Di Sebald il libro che mi ha colpito di più è Storia naturale della distruzione, che è una sorta di indagine su un tabù tedesco, quello della spaventosa distruzione subita dalla Germania nella Seconda Guerra Mondiale, quando un milione di tonnellate di bombe ha raso al suolo come mai accaduto precedentemente più di cento città. Fare i conti con la distruzione per i tedeschi era fare i conti con la colpa, con la vergogna, con la macchia, come avrebbe detto Philip Roth. E dunque qualcosa da cui fuggire, a cui opporre una formidabile ricostruzione.
Sebald nasce nel 1944 in Baviera, dunque nella fase terminale e drammatica del regime nazionalsocialista e molta della sua scrittura è proprio impegnata, anche attraverso l’analisi della letteratura, dell’arte figurativa, dell’architettura, nella penetrazione di quella che si potrebbe definire la psicologia di una nazione. Ma lo sguardo di Sebald va ben oltre la Germania, che costituisce semmai una sorta di ossessione di fondo. Dopo aver studiato letteratura in Germania e Svizzera, diventa infatti Lecturera Manchester e passerà la maggior parte della sua vita in Gran Bretagna. In un certo modo, forse proprio per la sua capacità di usare la letteratura per comprendere la vita dei popoli, Sebald a me sembra il più radicalmente europeo degli scrittori a cavallo fra il Novecento e il nuovo millennio.
Tra i libri che ho letto di recente e che mi sento di consigliare, direi sicuramente Le vite potenziali, pubblicato da Mondadori dello scrittore trevigiano Francesco Targhetta, un racconto che si sviluppa tra Mestre, Marghera e l’entroterra che connette Padova, Venezia e Treviso.
Non so se si possa parlare in termini precisi di un filone veneto della narrativa contemporanea, però a me sembra innegabile che esista una sorta di sfondo comune ai lavori di Vitaliano Trevisan, di Romolo Bugaro, di Francesco Maino e appunto, ora, di Francesco Targhetta. E questo sfondo è il territorio, il paesaggio urbano, la dissoluzione di qualsiasi antica coerenza dentro il mescolamento di rurale e ipertecnologico che segna indelebilmente l’intero Nord-Est.
Targhetta era conosciuto fino ad ora come poeta (notevolissimo il suo romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn 2012) e questo è il suo – a mio parere splendido – esordio in prosa.
Un ritratto sferzante e potente di un paesaggio che è insieme esistenziale e politico attraversa anche l’ultimo libro di Aldo Busi, Le consapevolezze ultime (einaudi Stile Libero, 2018), racconto strepitoso di una cena in quel di Montichiari, paese del bresciano nel quale Busi vive. Come sempre, la scrittura di Busi è sublime: straripante e perfetta, apparentemente fluviale eppur contrallatissima. Ciò che qui più colpisce, però, è lo sguardo che guida il racconto: uno sguardo che riesce a tenere insieme la ferocia e la pietas.
Poiché tutti i libri di cui ho parlato si muovono dentro un rapporto per molti versi decisivo fra scrittura e territorio, vorrei chiudere consigliando un piccolo libro di Mario Rigone Stern, del quale ricordiamo quest’anno i 10 anni dalla sua scomparsa.
Il libro in questione è Storia di Tönle, pubblicato da Einaudi. Si tratta di un romanzo breve e potentissimo, di una bellezza insieme semplice e radicale. Racconta di una vita per molti versi di confine, segnata dalla fuga e dal ritorno. Tönle è uno di quei personaggi che una volta conosciuti non si dimenticano più.
A me, ad esempio, è capitato in questi giorni di immaginare lo sguardo con cui Tönle avrebbe guardato alle violenze e alle tragedie di questo nostro tempo, che sono ancora violenze e tragedie di confine, tentativi di opporre a esistenze che cercano vita e libertà di stare al loro posto, dove il destino, il caso e la violenza del privilegio le hanno rinchiuse e riportate.
E ho pensato che quello sguardo mi avrebbe detto: “non vedi, bocia, che quegli occhi, quelle mani e quei corpi, sono i tuoi occhi, le tue mani, il tuo corpo”?