REUTERS/Leah Millis
Una dichiarazione che fa clamore, che evoca scenari del passato, un avvertimento che dalla Cina arriva dritto alla Casa Bianca dopo mesi di crescenti tensioni, sospetti, accuse: «Alcune forze politiche negli Stati Uniti stanno prendendo in ostaggio le relazioni sino-americane e cercano di spingere i due Paesi sull’orlo di una nuova Guerra Fredda», ha dichiarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Dunque evocando un pericolo per la pace mondiale, con parole inusuali e di certo ben ponderate prima di essere pronunciate.
Che lo stesso Wang abbia poi teso la mano, invocando la cooperazione e il dialogo tra i due paesi, fa quasi accrescere il senso di preoccupazione, di minaccia: «La Cina non ha intenzione di cambiare gli Stati Uniti, né di rimpiazzarli. Ed è un’illusoria speranza per gli Stati Uniti cercare di cambiare la Cina», ha poi concluso il ministro cinese. Perché sono molti i fronti di scontro aperti tra le due superpotenze: c’è la partita commerciale del 5G, con Trump che sta tentando in ogni modo di ostacolare il dominio di Huawei. C’è il Covid-19, e le accuse reiterate degli Stati Uniti alla Cina di aver non soltanto nascosto informazioni cruciali all’esplodere della pandemia, ma di aver di fatto “costruito” il virus in laboratorio. E infine la partita di Hong Kong, con Pechino che di nuovo sta tentando di erodere quella porzione di democrazia nell’ex colonia britannica in anticipo di 27 anni rispetto agli accordi sottoscritti quando, nel 1997, la città-Stato tornò sotto l’influenza della Repubblica Popolare Cinese.
“ Alcune forze politiche negli Stati Uniti stanno prendendo in ostaggio le relazioni sino-americane e cercano di spingere i due Paesi sull’orlo di una nuova Guerra Fredda Wang Yi
Riavvolgiamo il nastro. La settimana scorsa Hong Kong è entrata in un nuovo, pericoloso cono d’ombra. Il governo cinese ha presentato una serie di leggi per contrastare “separatismo, influenze straniere e terrorismo”, nella certezza (pretesto?) che i movimenti di protesta divampati negli ultimi anni siano stati istigati e organizzati da potenze straniere. Gli attivisti pro-democrazia sostengono invece che le nuove leggi siano soltanto l’ennesimo tentativo di stroncare il dissenso e violare i diritti riconosciuti dalla Legge Fondamentale di Hong Kong. Perché basterà una critica per rischiare il processo. Una restrizione clamorosa delle libertà individuali che con ogni probabilità sarà approvata il 28 maggio. Il presidente americano aveva minacciato “una reazione americana” se la legge verrà comunque imposta ai cittadini di Hong Kong. La Cina aveva risposto con una minaccia: «Se gli Stati Uniti cercheranno di interferire risponderemo». Il ministro Wang Yi ha poi precisato: «Cina e Stati Uniti non dovrebbero avere conflitti e cooperare in una logica win-win e di rispetto reciproco. Gli Usa devono rinunciare a voler cambiare la Cina e rispettare la volontà di sviluppo della nazione». Uno screzio tra i tanti, una partita che si gioca su diversi tavoli. Un’escalation di tensione che ha spinto Trump a mostrare i muscoli: secondo il Washington Post la Casa Bianca avrebbe intenzione di tornare a effettuare test nucleari (l’ultimo risale al 1992) proprio in risposta a Cina e Russia (e Corea del Nord: Kim Jong-un ha appena annunciato di voler aumentare le armi nucleari), colpevoli di aver condotto analoghi test. Indiscrezione trapelata all’indomani della notizia del ritiro americano dal trattato “Open Skies”, firmato nel 1992 proprio per ridurre i rischi di errori che potrebbero portare a una guerra (Il trattato prevede che si effettuino voli disarmati per l'osservazione aerea del territorio dei 34 Paesi firmatari, tra i quali la Russia). L’uscita degli Stati Uniti dal trattato, in polemica con la Russia accusata di averne violato le clausole, ha portato tra l’altro a una spaccatura alla Nato, con i paesi Europei (Italia compresa) che hanno espresso “inquietudine e preoccupazione” per la decisione americana.
Le accuse alla Cina di Trump & co.
Il braccio di ferro Usa-Cina va avanti da tempo. Sulla tecnologia 5G esattamente dal maggio del 2019, quando Trump decise di inserire Huawei in una black list, imponendo il divieto per le compagnie americane di fare affari con il colosso cinese. Mentre sul coronavirus il pressing esercitato da Washington su Pechino si arricchisce ogni giorno di nuovi dettagli. Dall’ultima dichiarazione di Donald Trump («Sul virus la Cina ha fatto un tremendo errore») alle durissime accuse affidate al Segretario di Stato, Mike Pompeo: «Ci sono numerose prove che il virus arrivi dal laboratorio di Wuhan. La Cina ha fatto di tutto per tenerlo nascosto. Classica operazione di disinformazione comunista. Ma ne risponderanno». Trump aveva poi rincarato: «Penso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbe vergognarsi di se stessa, è un burattino della Cina». Il governo di Pechino continua a negare qualsiasi responsabilità e respinge le accuse. E la tensione tra le due superpotenze continua a crescere.
La questione Hong Kong
Il caso di Hong Kong è l’ultima pericolosa goccia che va ad aggiungersi a un vaso già colmo di accuse, di sfide, di provocazioni. Una questione drammatica e semplice al tempo stesso. Da un lato c’è Hong Kong, la città-Stato che nel 1997, dopo 156 anni di controllo britannico, è tornata sotto l’influenza della Repubblica Popolare Cinese. La formula trovata durante le trattative per la restituzione dei territori fu quella denominata “un Paese-due sistemi”. Vale a dire il riconoscimento di una relativa autonomia e indipendenza (tranne che per questioni in materia di difesa e di politica estera) per 50 anni, dunque fino al 2047: che tradotto significa libertà di stampa e di associazione, diversi partiti, un piccolo Parlamento locale, una propria valuta e un sistema giuridico basato sul Common Law. Dall’altro lato c’è la Cina e la sua smania di riportare prima possibile la città-Stato nell’alveo più facilmente controllabile del sistema socialista. Una Cina che mal sopporta qualsiasi distinguo, qualsiasi tentativo di riaffermare una propria indipendenza dal pensiero unico del Partito, qualsiasi pretesa di “libertà” o manifestazione di dissenso. Come accaduto negli ultimi mesi a Hong Kong (o a Taiwan, o nel Tibet), con migliaia di persone in piazza a gridare il proprio scontento.
Ebbene, la scorsa settimana il governo cinese ha forzato la mano presentando all’Assemblea Nazionale del Popolo (l’equivalente del Parlamento) un pacchetto di proposte di legge che rischiano di far saltare il banco. Pechino vuol far leva sull’articolo 23 della Costituzione di Hong Kong, la Basic Law, che vieta qualsiasi forma di “tradimento e sovversione” nei confronti del governo cinese. E le manifestazioni di protesta, secondo il governo, questo sono. Un passaggio non da poco perché la norma calerebbe dall’alto, bypassando il parere dei parlamentari eletti a Hong Kong. E di fatto toglierebbe il diritto di parola a chiunque osasse criticare l’operato del governo di Pechino. Non a caso il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, ha rimarcato: «La norma va approvata senza il minimo ritardo». Il ministro ha anche ricordato che «colmare la lacuna nella sicurezza nazionale spetta al governo centrale», di fronte alla mancata azione del governo locale. Come dire: non siete stati in grado di placare le rivolte e le manifestazioni. Quindi ora provvediamo noi. Il ministro si è detto anche sicuro che la norma non modificherà il profilo finanziario di Hong Kong, una delle piazze più importanti del mondo, la terza dopo New York e Londra: lo snodo dove s’incontrano gli affari asiatici e occidentali. Per gli Stati Uniti ha replicato il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien: «La Cina si sta sostanzialmente prendendo Hong Kong, e questo gli Usa lo impediranno a colpi di sanzioni che saranno imposte sia su Hong Kong, sia sulla Cina», ha dichiarato.
Accuse alla polizia: uso sproporzionato della forza
Questa volta il tentativo del presidente Xi Jinping di “riassorbire” le pretese d’autonomia di Hong Kong appare particolarmente solido. La risposta degli attivisti è stata immediata, con una manifestazione imponente (e non autorizzata). Ma altrettanto immediata, e dura, è stata anche la reazione della polizia che, schierata in tenuta antisommossa, ha usato cannoni ad acqua e sparato lacrimogeni e arrestato almeno 180 dimostranti (il dato è in continuo aumento), tra i quali Tam Tak-chi, vicepresidente del People Power, uno dei partiti meno rappresentati al parlamento di Hong Kong (un solo seggio) ma più attivi contro l’establishment di Pechino. Gli scontri principali si sono verificati nel quartiere dello shopping di Causeway Bay. Il quotidiano South China Morning Post riporta anche un rapporto internazionale con accuse alla polizia locale di aver usato “una forza sproporzionata” e di aver preso “decisioni sbagliate” fin dal giugno 2019. «Sono sorpresa e spaventata», ha dichiarato al sito Linkiesta Edith Leung, del Partito Democratico di Hong Kong. «La legge, in teoria, dovrebbe bandire il secessionismo e il terrorismo, ma il cuore della questione è che la legge cinese sarà direttamente imposta a Hong Kong e comprometterà le nostre libertà e il nostro sistema giudiziario». E molti temono che una volta applicata la legge sarà proibito usare social network internazionali, come Facebook o Instagram. Timori anche tra i giornalisti dell’ex colonia, preoccupati che la nuova legge (i cui dettagli restano ancora oggi sconosciuti), possa influenzare e condizionare il loro lavoro, mettendo a tacere qualsiasi critica.
Non è la prima volta che Pechino tenta una stretta del genere: già nel 2003 mezzo milione di persone scesero in piazza per protestare contro il tentativo d’imporre divieti con il pretesto della “sicurezza interna”. Furono gli albori della protesta degli ombrelli, che molti dei manifestanti usarono per proteggersi contro il caldo feroce di quel luglio. E molti, come più recentemente avvenuto, indossavano indumenti neri, a simboleggiare il lutto per la perdita dei diritti civili. Nel 2014 la scintilla fu un tentativo di modificare la legge elettorale. Giovani i manifestanti, perlopiù studenti, senza bandiere politiche, Una protesta pacifica, che passò alla storia come la “rivolta degli ombrelli”, in gran parte gialli, che i dimostranti usarono per difendersi dal lancio dei lacrimogeni da parte della polizia cinese. Fu l’inizio del “dissenso organizzato” nei confronti del governo cinese. L’occupazione del centro finanziario di Hong Kong durò 79 giorni. I tre leader di “Occupy Central”, oltre ad altri manifestanti per la disobbedienza civile, furono poi condannati per "cospirazione e incitamento a commettere disturbo dell'ordine pubblico". Il governo cinese impose la “nomina” di un governatore della regione non eletto dal popolo. Nel giugno 2019 una nuova fiammata di proteste fu innescata da una proposta di legge sull’estradizione, presentata dalla governatrice Carrie Lam, che avrebbe consentito di processare nella Cina continentale le persone accusate di aver commesso determinati crimini, riconducibili alla “sicurezza interna”: sempre lo stesso tasto. Dopo le manifestazioni e gli scontri (e l’eco mondiale che suscitarono) la proposta fu prima congelata, e poi definitivamente ritirata dalla governatrice. Manifestazioni che erano comunque proseguite, fino a interrompersi negli ultimi mesi, proprio a causa dell’emergenza coronavirus.
L’ultimo tentativo del governo centrale di scavalcare il Parlamento locale dell’ex colonia britannica sta andando in scena questi giorni. A denunciare il “pugno di ferro” di Pechino anche Joshua Wong, leader del partito Demosisto (nato nel 2016 proprio dal movimento degli ombrelli), che all’Agi ha dichiarato: «L'Unione europea dovrebbe sanzionare la Cina per le sue violazioni alle regole stabilite da un trattato internazionale. E spero che l’Italia possa ridurre la sua partecipazione al progetto della Via della Seta». Venerdì scorso il primo ministro cinese Li Keqiang ha ribadito che il governo «attuerà pienamente e fedelmente la politica di "Un Paese, due sistemi", in base alla quale il popolo di Hong Kong amministra Hong Kong e il popolo di Macao amministra Macao, con un alto grado di autonomia per entrambe le regioni». Ma ha aggiunto anche: «Non possiamo più permettere atti come il vilipendio delle bandiere nazionali o deturpare l'emblema nazionale di Hong Kong». Il tentativo riuscirà, con buona pace del principio “Un Paese, due sistemi”, che nella sostanza, se non nella forma, sembra destinato a finire prima del previsto.