Il Boeing 767 fermo sulla posta dell'aeroporto di Gatwick. Foto: Reuters
Il volo Londra-Kigali, sola andata, è stato bloccato ieri sera all’ultimo secondo, quando già l’aereo, un Boeing 767, era sulla pista dell’aeroporto londinese di Gatwick. Doveva essere il primo “volo della deportazione”, con a bordo alcuni migranti (da 130 iniziali si erano ridotti via via a 7) entrati illegalmente nel territorio del Regno Unito, e perciò destinati in Ruanda, Africa orientale, a seimila miglia di distanza. Il governo di Londra la chiama “esternalizzazione delle domande d’asilo”: di fatto il paese africano, in cambio di denaro (si parla di un accordo da 120 milioni di sterline, circa 140 milioni di euro), si è impegnato a ospitare i richiedenti asilo non graditi al governo inglese per un periodo di tempo indefinito, comunque fin quando le autorità di Londra non decideranno se concedere loro o meno lo status di rifugiati, e dunque l'accesso. Ma a rovinare i piani del governo di Boris Johnson è stata, martedì sera, un’ordinanza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu), che ha accolto in extremis il ricorso presentato dai legali di un uomo iracheno che sarebbe dovuto salire su quell’aereo, invocando l’articolo 39: una misura eccezionale che si applica nei confronti “di chi corre un rischio reale di subire un danno irreversibile”. Un’ordinanza che, per espressa indicazione della Corte, si deve considerare applicata “a tutti i richiedenti asilo che devono affrontare l'allontanamento”. Quindi stop al primo volo per il Ruanda, che sarebbe stato operato dalla Privilege Style, una compagnia di charter. E il premier Johnson è andato su tutte le furie, minacciando di far uscire il Regno Unito dalla Corte di Strasburgo e accusando gli avvocati di “favorire il lavoro di bande criminali” che contrabbandano persone attraverso la Manica. «Ma non ci faremo intimidire», ha commentato a caldo la ministra dell’Interno britannica, Priti Patel, che ha definito “sorprendente” la decisione della Corte. «Le persone che non sono partite stasera saranno collocate sul prossimo volo: il nostro team legale sta esaminando ogni aspetto della questione».
Welcome news from the High Court today.
— Boris Johnson (@BorisJohnson) June 10, 2022
We cannot allow people traffickers to put lives at risk and our world leading partnership will help break the business model of these ruthless criminals. https://t.co/Xus4ADmNIP
L’Alta Corte aveva dato semaforo verde
Il piano (chiamato “Nationality and Borders Bill”) voluto, difeso e preteso dal governo di Boris Johnson per risolvere, “una volta per tutte”, il problema dell’immigrazione clandestina (lo scorso anno 28mila persone sono arrivate in Inghilterra dopo aver attraversato la Manica), è arrivato dunque a un passo dall’entrare nella fase della sua totale attuazione, forte del parere dell’Alta Corte di Londra, che pochi giorni fa aveva acceso il semaforo verde all’operazione, nonostante le contrarietà espresse con fermezza dall’Onu, dalla Famiglia Reale, dalla Santa Sede e da tutte le associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani. Il ricorso era stato presentato da quattro richiedenti asilo, con il sostegno delle associazioni Care4Calais e Detention Action, oltre al sindacato degli agenti di frontiera britannici, sostenendo che tra i destinati alla deportazione c’erano anche persone di origine afghana e siriana, dunque in fuga da scenari dove sono presenti conflitti, il che è in netto contrasto con quanto stabilito dai trattati internazionali (firmati anche dal Regno Unito) in materia di asilo politico. Eppure Jonathan Swift, giudice dell'Alta Corte di Londra, aveva ritenuto «importante nell’interesse pubblico che la ministra dell’Interno, Priti Patel, sia in grado di attuare gli ordini di controllo dell'immigrazione». Decisione non condivisa da Laura Dubinksy, dell’Ufficio legale dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), che nel corso di quella stessa udienza aveva denunciato «il pregiudizio grave e irreparabile» che lo schema ruandese di Londra rischia di generare. «I richiedenti asilo sono a rischio di danni gravi e irreparabili se saranno spediti in Ruanda», aveva poi precisato Dubinsky. A vuoto era andato anche il successivo ricorso d’urgenza presentato dagli attivisti alla Corte d’Appello: il giudice Rabinder Singh aveva respinto il ricorso affermando che la Corte “non poteva interferire con la sentenza chiara e dettagliata del giudice dell'Alta Corte”, peraltro chiudendo la porta a ulteriori ricorsi. La stessa Onu, dopo aver smentito di aver mai avallato il progetto del governo Johnson, aveva nuovamente espresso preoccupazione per le capacità del paese africano di gestire il flusso di persone, garantendo le primarie salvaguardie legali e prevenendo possibili episodi di discriminazione: in Ruanda, per dirne una, l’omosessualità non è un reato, ma non c’è alcuna tutela per gay, lesbiche e transessuali, spesso privati perfino della possibilità di accesso alle cure mediche. Due mesi fa, quando l’accordo con la Gran Bretagna è stato firmato, il presidente ruandese Paul Kagame aveva tentato di rassicurare, sostenendo che il suo paese e il Regno Unito «non sono impegnati nell’acquisto e nella vendita di persone, ma cercano invece di risolvere un problema migratorio globale». L’accordo non prevede comunque il ritorno in Gran Bretagna per le persone espulse: spetterà alle autorità ruandesi stabilire se avranno i requisiti per restare nel paese africano (e nel caso ricevere vitto, alloggio e possibilmente un lavoro). Altrimenti saranno espulse anche dal Ruanda, per essere destinate chissà dove. Come aveva confermato il Migration Policy Institute: «Non si tratta di una elaborazione offshore di un possibile insediamento nel Regno Unito, ma di una destinazione permanente».
Sembrava fatta: ma mentre la ministra esultava («La nostra volontà resta quella di fermare il traffico mortale di essere umani, e dunque di salvare vite») le polemiche si moltiplicavano, varcando, quelle sì, i confini del Regno. Come quella che riguarda i ragazzini immigrati, minorenni, attorno ai 14 anni, che il Ministero dell’Interno avrebbe voluto spedire in Ruanda assieme agli adulti. Tre di loro, di “età controversa, ma dichiarati adulti”, secondo quanto riporta il Guardian, e perciò detenuti con i più grandi in vista dell’espulsione, erano già stati rilasciati nei giorni scorsi. Lauren Starkey, assistente sociale di Care4Calais, aveva denunciato: «Non è possibile che qualcuno, peraltro con esperienza nella protezione dei minori, possa guardare i ragazzi che abbiamo visto anche noi e sostenere che abbiano vent'anni». Ma non si tratterebbe dell’unico caso. Sostiene il Refugee and Migrant Children’s Consortium (RMCC): «Siamo gravemente preoccupati per il fatto che i bambini non accompagnati, la cui età è stata erroneamente valutata, rischiano di essere trasferiti in Ruanda con ripercussioni estremamente dannose sulla loro sicurezza e benessere». Analizzando i dati provenienti da 55 autorità britanniche, raccolti in un’indagine dall’organizzazione no profit Helen Bamber Foundation, si è inoltre scoperto che nel 2021 più di 450 giovani sono stati indirizzati ai servizi per l'infanzia dopo essere stati inizialmente inviati in alloggi per adulti o detenuti. «E i primi dati relativi al 2022 indicano che questo problema persiste», aggiunge il Guardian. Intanto la British Dental Association ha deciso di prendere le distanze dal piano del governo, dichiarando di “non riconoscere” la tecnica utilizzata dal Ministero degli Interni, basata sui controlli dentali, per calcolare l'età di un migrante.
Indignazione internazionale contro Johnson
La partita, naturalmente, non si chiude qui. Ma l’onda dell’indignazione interna e internazionale continua a crescere. E Boris Johnson potrebbe aver trovato una nuova buccia di banana su cui scivolare, dopo i recenti scandali che l’hanno visto protagonista ed essersi salvato pochi giorni fa da un voto di sfiducia. Lui attacca: «Sapevamo che avremmo avuto bisogno di tempo per far funzionare le cose, ma questo non significa che non andremo avanti. Ritengo che sia molto importante continuare a mostrare ai trafficanti di persone che il loro “business case” sarà minato. Il mondo legale è molto bravo a trovare modi per cercare di impedire al governo di sostenere quella che riteniamo essere una legge ragionevole». Ma il premier sta finendo al centro di una tempesta perfetta, anche perché nel frattempo il principe Carlo ha tirato una bordata all’esecutivo, definendo “sconcertante” il piano per deportare i migranti in Ruanda.
Human Right Watch ha accusato il governo del Regno Unito di minimizzare e ignorare i rischi reali che si nascondono dietro quest’operazione: «Il governo ha definito erroneamente il Ruanda “un Paese sicuro"», ha sostenuto Yasmine Ahmed, direttore di HRW per il Regno Unito. «È vero che il Ruanda ha ottenuto notevoli progressi in termini di sviluppo dal suo genocidio del 1994, che ha visto almeno 800.000 persone massacrate. Ma questo non equivale a stabilire un record di diritti umani». Durissima anche la reazione di Sophie McCann, dell’ufficio legale di Médecins Sans Frontières (MSF UK): «Il trasferimento forzato di rifugiati e richiedenti asilo in Ruanda da parte del governo del Regno Unito segna un capitolo oscuro nei diritti dei rifugiati. Il piano per rimuovere con la forza coloro che cercano sicurezza è vergognoso, pericoloso e offusca le responsabilità del Regno Unito. È spaventoso che il Regno Unito punisca le persone semplicemente per aver cercato sicurezza. Invece di aprire le porte alle persone vulnerabili, questo governo le ha chiuse. Stiamo assistendo a una tendenza globale verso politiche volte a scoraggiare o esternalizzare, se non porre fine, alla migrazione. Perseguendo le espulsioni forzate, il Regno Unito sta causando consapevolmente miseria e danni, oltre a incoraggiare altri paesi a smantellare ulteriormente i diritti dei rifugiati». Come la Danimarca, che sulla scia dell’esempio britannico, è in trattative con il governo del Ruanda.