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In Salute. Effetto placebo: come sfruttare la nostra "farmacia interna"
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Immaginiamo di poter provare sollievo da un dolore che non ci dà pace assumendo una pillola priva di qualsiasi effetto collaterale. Non oppioidi o corticosteroidi, ma un trattamento potenzialmente in grado di dare solo benefici. Gli scienziati sanno ormai da molto che se una persona assume una pillola che considera un antidolorifico, ma in realtà priva di qualsiasi principio attivo, è probabile che percepisca una diminuzione del dolore. Si tratta di effetto placebo, un fenomeno ormai noto, ma di cui non si conoscono ancora perfettamente i meccanismi biologici. Nel corso del tempo, molti ricercatori hanno cercato di trovare delle risposte. Negli ultimi mesi, in particolare, sono stati pubblicati (tra gli altri) due studi rispettivamente su Nature e Current Biology che ampliano le attuali conoscenze: nel primo caso gli scienziati hanno identificato (nei topi) dei circuiti cerebrali che potrebbero aiutare a spiegare come i placebo siano in grado di alleviare il dolore. Nel secondo caso invece hanno dimostrato che associare un particolare ambiente a un trattamento attivo potrebbe essere un modo per sfruttare l’effetto placebo (nel caso specifico gli esperimenti sono stati condotti sui topi in una scatola).
“I meccanismi alla base dell'effetto placebo sono molteplici – sottolinea Luana Colloca, neuroscienziata della University of Maryland e direttrice del Placebo Beyond Opinion Center –. Per placebo si intende una sostanza inerte, una pillola senza alcuna sostanza attiva al suo interno. L’effetto placebo, invece, descrive un fenomeno più complesso, correlato a una serie di meccanismi di guarigione legati a sistemi discendenti cerebrali: a partire dalle nostre aspettative cioè, è possibile attivare parti del cervello che vanno a inibire per esempio il dolore, oppure l'ansia o la nausea. L'effetto placebo quindi si riferisce alla possibilità di controllare e modulare i sintomi, basandoci su meccanismi di apprendimento, aspettativa, empatia e così via”.
In sostanza, sostiene Fabrizio Benedetti, professore del dipartimento di neuroscienze “Rita Levi Montalcini” dell’università di Torino e autore di molti volumi su questo tema, è l'effetto positivo che segue alla somministrazione di una terapia finta, una terapia placebo per l’appunto. “Ovviamente, non è la terapia finta in sé che produce l'effetto benefico. È un effetto psicologico, in cui il paziente crede, spera, ha fiducia e si aspetta qualcosa di positivo, cioè un miglioramento clinico”.
Una “farmacia interna”
Continua Luana Colloca: “L'effetto placebo appartiene a una sorta di farmacia interna che ognuno di noi possiede. Non ha effetti collaterali, a differenza di farmaci come gli oppioidi o i corticosteroidi. L'idea dunque è di utilizzare i meccanismi placebo per ridurre l'uso di farmaci attivi che hanno un profilo di effetti collaterali e benefici a volte non ottimale, e spostato più verso gli effetti collaterali. Il placebo è un trigger (uno stimolo, ndr) che permette di rilasciare nel cervello sostanze come endorfine, endocannabinoidi e così via. E le endorfine sono oppioidi naturali che il nostro cervello produce quando ci aspettiamo di stare meglio”. Secondo la neuroscienziata dunque è possibile andare a creare un processo di riduzione del dolore basandosi su meccanismi endogeni che appartengono al paziente.
L'effetto placebo può essere misurato con tecniche che variano a seconda del sistema che si va a studiare. “Quando esaminiamo l'effetto placebo nell'ambito del dolore – sottolinea Luana Colloca –, possiamo eseguire una risonanza magnetica, un encefalogramma, possiamo anche considerare dei parametri biologici come una risposta collegata all'espressione dei geni. Ovviamente la misura più semplice è quella di chiedere al paziente il grado di dolore percepito. Tuttavia da neuroscienziati andiamo oltre la misura soggettiva di un sintomo, in questo caso della riduzione del dolore legata all'effetto placebo. Cerchiamo piuttosto dei markers, cioè delle misure oggettive che ci aiutano a capire quanto è utilizzabile l’effetto placebo e allo stesso tempo i meccanismi alla base di questa modulazione dei sintomi”.
Intervista completa a Luana Colloca, neuroscienziata della University of Maryland. Servizio e montaggio di Monica Panetto
Cruciale la relazione medico-paziente e il contesto psicosociale
Colloca prosegue spiegando come si può sfruttare l’effetto placebo in terapia: “Una delle strategie utilizzate viene detta dose-extending placebo: si somministrano cioè farmaci attivi e placebo, facendo in modo che il corpo impari dal farmaco attivo a rispondere; sostituendo poi il medicinale con un placebo che ha la stessa forma, lo stesso odore, lo stesso colore, si può mantenere la risposta analgesica”. La neuroscienziata spiega che l'effetto placebo può essere attivato anche da una figura medica o dall'ambiente in cui il paziente si trova.
In sostanza, sottolinea Fabrizio Benedetti, i protocolli placebo che alcuni oggi usano consistono nel rimpiazzare gradualmente un farmaco con un placebo, in modo da ridurre il consumo del medicinale in questione. “Questo si può fare per esempio nella cefalea da abuso farmacologico. Il protocollo terapeutico, che va sotto il nome di svezzamento farmacologico, è il seguente: farmaco-farmaco-farmaco-placebo-placebo-farmaco-farmaco-placebo”.
Il docente sottolinea che una buona relazione medico-paziente è fondamentale, perché stimola le aspettative e le speranze della persona. Già in una precedente intervista a Il Bo Live, spiegava che “l'effetto placebo è dovuto al contesto psicosociale intorno al paziente, un contesto positivo che induce fiducia, speranza, aspettative. Visto che l'elemento fondamentale del contesto intorno al paziente è il medico, la relazione medico-paziente gioca un ruolo cruciale”.
Dolore, ma anche ansia, depressione e non solo
L’effetto placebo può essere sfruttato non solo per alleviare il dolore, ma anche in altri ambiti. “Ogni condizione in cui i fattori psicologici giocano un ruolo importante è sensibile a una terapia placebo – spiega Benedetti –, oltre al dolore per esempio, l'ansia, la depressione, la performance fisica. Al contrario, un placebo non sembra avere effetti sulla crescita tumorale, sulle infezioni, sulla coagulazione del sangue”. Luana Colloca osserva che nel campo della psichiatria ci sono vari studi che dimostrano che la risposta placebo può essere molto importante nel modulare i sintomi, principalmente per l’appunto in caso di depressione e ansia. Ma non solo. “Se consideriamo il sistema immunitario, si è visto che è possibile creare dei meccanismi di condizionamento e andare a ridurre la quantità totale di farmaco somministrata, per esempio a soggetti che hanno avuto un trapianto di reni. Vengono ridotte, dunque, le dosi di immunosoppressivi proprio per favorire un processo di guarigione ottimale, minimizzando gli effetti collaterali dei farmaci”.
Aspetti etici
Quando si valutano le potenzialità di terapie placebo, ci sono anche aspetti etici da considerare. “L’American Medical Association – osserva la neuroscienziata – limita l'uso del placebo quando esistono terapie attive. E per il dolore ci sono molte medicine disponibili, oltre ai trattamenti chirurgici, e quindi l'effetto placebo spesso non trova spazio per ragioni legate a policy e questioni etiche”. Il placebo, inoltre, sembra fare effetto quando il paziente è convinto di assumere un farmaco reale, ma il medico non può prescrivere un trattamento occultando delle informazioni. Alcuni ricercatori per questo hanno valutato cosa accade se le persone sanno di non assumere alcun principio attivo, e sembrerebbe che anche i “placebo non ingannevoli” diano comunque dei risultati.
Conclude Luana Colloca: “Nazioni come la Germania hanno lottato per poter prescrivere il placebo, ma è l’unico Paese che io sappia. In Italia o negli Stati Uniti è difficile prescrivere un placebo come si fa con altri farmaci, se non impossibile, e quindi per ora i lavori di cui parliamo sono principalmente di natura sperimentale”.