SCIENZA E RICERCA

New data for new challenges. La bassa fertilità non è necessariamente un problema

Nei mesi scorsi si è parlato molto di abbassamento della natalità. In Italia c’è chi ha perfino fatto campagne mediatiche e politiche per incentivare le persone ad avere più figli. A fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi e 895 milioni a oggi, con prospettive di arrivare in breve tempo a 9 o perfino 10 miliardi, il tema della bassa natalità sembra davvero peculiare. Eppure, nell’ambito dei singoli paesi e dunque delle loro organizzazioni socio-economiche, è invece una questione che solleva più di una preoccupazione.  

Ne parla Tomáš Sobotka, del Vienna Institute of Demography, in apertura di una delle sessioni della Conferenza New data for the new challenges of population and society organizzata dal Dipartimento di Scienze Statistiche delll’Università di Padova il 22-24 Settembre.

Con la sua keynote dal titolo Low fertility is not a destiny. Trends, determinants and policies entra nel vivo di una questione che evidentemente interroga non solo le prospettive future di un paese ma anche la sua salute in termini di politiche passate e attuali. La bassa fertilità, spiega Sobotka, si ha quando la natalità scende sotto il cosiddetto ‘replacement level’, il punto in cui i nati sostituiscono i morti, in termini di numeri, in una data società. Si tratta di un concetto squisitamente demografico e teorico, perché guarda alla popolazione nel suo insieme come capace, o meno, di mantenersi vitale, cioè di essere continuamente rinnovata in termini della sua dimensione numerica. Questo in assenza di riduzione o aumento della mortalità e di immigrazione/emigrazione. In condizioni del tutto teoriche, appunto.

Bassa natalità: un problema locale o globale?

In termini teorici, dunque, una donna dovrebbe avere in media 2.1 bambini a testa per far sì che una popolazione rimanesse più o meno costante. Nei paesi molto ricchi oggi i tassi sono ben più bassi. Ma finché siamo a 1.6-1.8, dati anche altri cambiamenti come l’allungamento della vita, in realtà non ci sono grandi scossoni. Il tasso davvero basso e preoccupante, perché indica che in una certa società non ci sono più le condizioni per decidere di avere dei figli, è quando si scende sotto 1.5 - oggi in Italia, ad esempio, siamo sotto 1.3.

E perché sarebbe un problema la bassa fertilità considerando che da un punto di vista complessivo la popolazione mondiale è già troppo numerosa e il nostro impatto sul pianeta sembra essere giunto a un punto di non sostenibilità? Il problema è che in generale le comunità tendono a essere assai più focalizzate su quello che accade in prossimità e non necessariamente a preoccuparsi della situazione globale. E dunque, in un momento storico in cui la popolazione è sempre più longeva, la bassa natalità porta necessariamente a cambiamenti strutturali piuttosto consistenti in una determinata società. Ci sono molti paesi in cui la tendenza è al rallentamento o alla drastica riduzione della natalità. Non solo in Europa, ma anche in molti paesi del Sud Est asiatico. E se in qualche caso, come in alcune zone del Sud Europa, c’è una compensazione parziale dovuta ai flussi di immigrazione, in altri casi questa compensazione non c’è e dunque ci possono essere società, piccole o grandi, che hanno davanti una prospettiva di vedersi progressivamente private di risorse, di persone, con una frammentazione e dispersione della propria struttura sociale. 

Non c’è una diretta correlazione tra la dimensione della popolazione e le scelte delle persone di vivere in un luogo più o meno affollato. In altri termini, ci sono popolazioni rurali o periferiche che tendono a dissolversi per la combinazione di bassa natalità ed emigrazione e ci sono società che pur se caratterizzata da una riduzione del tasso di natalità continuano a scegliere modi di vivere concentrati in grandi città, come è il caso della Corea del Sud, dove gran parte della popolazione invece di distribuirsi nel paese preferisce comunque stare a Seoul. Dunque, la riduzione del numero di abitanti di una popolazione non porta necessariamente a scegliere anche luoghi di vita meno affollati e con minore densità abitativa.

L'impatto delle politiche sociali e del contesto culturale

Naturalmente, ricorda Sobotka, il tasso di natalità è influenzato da molti fattori sia di natura personale e culturale, per cui in molte società oggi la genitorialità diventa una scelta e non è più un fatto spontaneo e dato per scontato. Gran parte dei bambini nati soprattutto in paesi ad alto reddito, sono scelti, voluti e dunque le donne e gli uomini pianificano la propria vita per avere questi figli. Al punto che in questi stessi paesi la scelta viene fatta all’interno di un percorso di vita che implica anche il raggiungimento di altri obiettivi prima di avere un figlio, il che a sua volta restringe la finestra riproduttiva e rende difficile avere numeri molto elevati di figli per persona. Ma ci sono naturalmente anche gli effetti di diverse politiche e scelte istituzionali: una società che mette in campo misure di supporto che facilitano l’organizzazione familiare consente alle persone di scegliere di avere dei figli assai di più che non nel caso di forte incertezza economica sul proprio futuro immediato e lontano. In più, sottolinea Sobotka, le società che sono evolute verso un modello di parità di genere maggiore, come quelle del Nord Europa per esempio, vedono una maggiore propensione alla scelta riproduttiva rispetto a quelle dove spetta solo o principalmente alla donna occuparsi dei figli. Tornando al caso di società ricche ma non particolarmente paritarie, come la Corea del Sud o il Giappone, sostiene Sobotka, per una donna che ha anche altri obiettivi nella vita, per esempio di natura professionale, diventa quasi una scelta forzata quella di non sposarsi e non riprodursi per evitare di trovarsi costretta in una condizione indesiderata

Infine, in una società che sta diventando anziana e dove c’è una grande disparità in termini numerici tra i giovani attorno ai 25 anni e gli anziani sui 60, Sobotka sostiene che sia necessario ragionare molto di più in termini di politiche e di organizzazione sociale. È vero senz’altro che ci sarà necessità di maggiore welfare per gli anziani, di assistenza, di strutture e di investimenti sanitari. D’altro canto, le persone anziane costituiscono un patrimonio sociale prezioso, di conoscenze e soprattutto di relazioni. I punti su cui ragionare sono molti: durata della vita lavorativa e migliore investimento in formazione professionale per far sì che più persone possano rimanere attive, compatibilmente con la propria salute, anche in stadi diversi della propria vita. Ma anche investimenti in modo da rafforzare e sostenere, invece di indebolire, i legami familiari che consentono a giovani e anziani di prendersi cura reciprocamente e quindi di assolvere ai propri bisogni diversi. 

Qui le altre interviste di questa serie:

Guido Alfani - La lunga storia delle disuguaglianze

Fausta Ongaro - L'incertezza e l'impatto sulle scelte della vita

Inaki Permanyer - Longevità e salute: la grande sfida

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