SCIENZA E RICERCA
Il nostro cervello ha la sindrome di Peter Pan? Forse è questo a renderlo speciale
Immaginare, pianificare, astrarre. Il cervello umano ha delle capacità uniche che lo distinguono da quello degli altri esseri viventi che abitano il nostro pianeta. Filosofi e scienziati si domandano da secoli dove si nasconda il segreto della sua eccezionalità e cosa, in altre parole, ci renda in grado di portare a termine compiti cognitivi complessi che nessun’altra specie sembra in grado di svolgere. La ricerca delle dinamiche evolutive che hanno plasmato il cervello degli umani moderni ha dato vita a un dibattito tra alcuni studiosi che propongono la tesi dell’evoluzione “a mosaico”, secondo cui le diverse parti del cervello si sarebbero sviluppate indipendentemente le une dalle altre, e altri che appoggiano invece la tesi opposta, sostenendo che proprio l’integrazione tra le diverse aree abbia consentito al cervello degli umani moderni di raggiungere il suo attuale livello di sviluppo.
Secondo i risultati di uno studio internazionale pubblicato su Nature Ecology & Evolution, la spiegazione dell’unicità del nostro cervello ha a che fare con un fenomeno chiamato covariazione che rende le diverse aree del nostro cervello (e anche di quello dei Neanderthal) strettamente connesse tra di loro anche in età adulta, a differenza di quanto accade nelle grandi scimmie antropomorfe. Grazie a un’analisi morfologica che confronta il cervello degli umani moderni con quello di altri primati e ominidi, gli autori dello studio suggeriscono che proprio la forte integrazione tra le diverse aree cerebrali ci abbia resi capaci di svolgere compiti cognitivi assai complessi.
Our new paper in @NatureEcoEvo together with @Gab_Sansalone, @AntProfico and @StephenWroe tells the story of how the human brain evolved to stay young!
— Raia's Lab (@lab_raia) January 5, 2023
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“In quanto esseri umani, agiamo e vediamo il mondo diversamente da qualsiasi altro essere vivente”, riflette Pasquale Raia, professore di paleontologia e paleoecologia all’università Federico II di Napoli, che ha coordinato lo studio. “Il motivo di quest’evidenza viene indagato in ambito storico-filosofico e scientifico da molti secoli, specialmente da quando ci si è resi conto del ruolo chiave che gioca il cervello nella costruzione della nostra identità. Tra le caratteristiche del nostro cervello, la principale che è sempre stata (e lo è ancora) indagata e individuata in quanto responsabile della nostra intelligenza, ovvero della capacità di capire il mondo intorno a noi, è la dimensione”, spiega Raia. “Si tratta di un parametro che viene approfondito sia in termini relativi, valutando la dimensione del cervello rispetto a quella del resto del corpo, sia in termini assoluti, misurando cioè la quantità di connessioni al suo interno e la capacità di immagazzinare e processare informazioni. In termini assoluti, il nostro cervello è straordinariamente grande rispetto a quello delle altre specie (anche se non più grande, ad esempio, di quello dei Neanderthal), mentre invece in termini relativi, guardando cioè al rapporto dimensionale cervello-corpo, non supera quello dei grandi cetacei. La dimensione, quindi, conta, ma non è tutto. È stato scoperto, ad esempio, che l’Homo naledi, che viveva in Sudafrica più di 300.000 anni fa, e l’Homo florensis, vissuto circa 90.000 anni fa sull’isola di Flores, vicino Giava, nonostante avessero un cervello piuttosto piccolo erano in realtà capaci di produrre manufatti litici che richiedono capacità cognitive non banali”.
Un'altra caratteristica del cervello che può essere studiata per scoprire i segreti che lo rendono così speciale è la forma. Come racconta Raia, “Grazie ai risultati degli studi neuroscientifici, oggi conosciamo la funzione a cui è deputata ogni area del nostro cervello. Sappiamo, ad esempio, che la corteccia frontale è associata al ragionamento e alla valutazione delle azioni, quella prefrontale con all’etica, il lobo temporale alla percezione uditiva e alla memoria e quello occipitale alla percezione visiva e al riconoscimento delle immagini. Per rilevare le interazioni tra le diverse aree possono essere usati due approcci di ricerca: il primo è quello della connettomica, che cerca di mappare la rete delle connessioni neuronali dentro il cervello umano. Purtroppo, però, l’applicazione di questa tecnica richiede molto tempo e una grande disponibilità di risorse tecnologiche avanzate. Per questo motivo, nel nostro studio abbiamo indagato le connessioni tra le diverse aree tramite un secondo approccio chiamato modularità, che attraverso un paragone tra diversi campioni valuta il grado di sviluppo delle diverse aree del cervello osservandone la forma”.
Raia e coautori hanno analizzato 400 endocast, ovvero i calchi interni delle scatole craniche appartenenti a quasi 150 primati esistenti e ominidi fossili di età differenti. Tramite questo processo hanno raccolto dati morfologici e volumetrici relativi alla crescita del cervello nelle diverse specie. Sulla base di questi dati hanno tratto dei modelli che descrivono le diverse fasi di sviluppo cerebrale per ognuna di esse.
“Studiando e paragonando la forma del cervello di sapiens, Neanderthal, grandi scimmie antropomorfe e altri primati e ominidi abbiamo rilevato dei modelli di covariazione che mostrano il livello di coordinazione tra le diverse aree cerebrali durante il loro sviluppo”, spiega Raia. “Un alto tasso di covariazione mostra che due o più aree sono per certi versi “collegate”, nel senso che crescono ed evolvono insieme, poiché lo sviluppo di una influenza e favorisce lo sviluppo delle altre.
Abbiamo osservato che il nostro cervello, così come quello delle grandi scimmie antropomorfe, è caratterizzato da un alto tasso di covariazione in età giovanile. Questo significa che durante il periodo di crescita, quello in cui si è bambini (o cuccioli), le diverse parti della corteccia cerebrale sono fortemente connesse tra di loro. Tale interazione facilita l’apprendimento e i processi di elaborazione delle informazioni. Abbiamo poi osservato che quando gli individui che appartengono alle altre specie entrano nella maturità sessuale, la covariazione progressivamente scompare. Ciò significa che il cervello è ormai cresciuto, ha imparato, e che perciò le diverse aree possono lavorare separatamente senza essere “disturbate” dall’attività delle altre. Tendono, in altre parole a isolarsi e ognuna di esse raggiunge un diverso livello di sviluppo a seconda della specie e dei fattori di pressione selettiva provenienti dall’ambiente esterno. Ad esempio, nelle scimmie sudamericane l’area del cervello che regola l’equilibrio e la visione prospettica è particolarmente sviluppata rispetto alle altre. Anche nei bonobo, nei gorilla e negli oranghi si osservano differenze significative tra alcune regioni molto evolute e altre il cui sviluppo si è arrestato prima. Nel cervello dei sapiens, invece, è possibile osservare un elevato livello di integrazione – ovvero una situazione in cui tutte le parti sono altamente sviluppate e continuano a crescere insieme – anche in età adulta. Questo significa che, al contrario di ciò che accade nelle grandi scimmie antropomorfe, negli esseri umani la covariazione caratterizza il cervello anche dopo la pubertà. Non viene persa, insomma, quella coordinazione tra le diverse aree del cervello che nelle altre specie si riscontra solo negli individui più giovani”.
Foto: "Homo sapiens and Neanderthals share high cerebral cortex integration into adulthood", G. Sansalone et al., Nature Ecology & Evolution (2023)
Potrebbe essere stata proprio questa sorta di sindrome di Peter pan che accompagna il nostro cervello anche dopo la maturità ad averlo reso speciale rispetto a quello degli altri animali. Il confronto tra i modelli di covariazione durante lo sviluppo tra le diverse specie suggeriscono anche che questa eterna giovinezza del nostro cervello sia frutto della selezione naturale e che costituisca, perciò, un vantaggio evolutivo.
“Abbiamo osservato un’elevata covariazione tra le diverse aree cerebrali che anche nei Neanderthal adulti”, spiega Raia. “Anche il loro cervello, per quanto avesse una forma diversa dal nostro, manteneva quelle caratteristiche giovanili descritte poc’anzi. La spiegazione più verosimile, quindi, è che anche i Neanderthal abbiano attraversato lo stesso pattern evolutivo che caratterizza i sapiens. Purtroppo, però, non si dispone di un numero sufficiente di crani Neanderthal in età giovanile ben conservati per testare direttamente questa tesi. Serviranno molte altre ricerche, che integrino possibilmente anche l’approccio della connettomica, per corroborare la nostra ipotesi. Siamo infatti ancora molto lontani dal raggiungimento di una significatività statistica. La speranza è che i nostri risultati servano da guida per studi futuri che approfondiscano la questione e forniscano nuove prove che portino alla luce le dinamiche evolutive che hanno reso il nostro cervello unico”.