NonChiamatemiMorbo è una mostra fotografica “parlante”. Davanti all’obiettivo le storie di oltre venti malati di Parkinson e, dietro, l’occhio discreto di Giovanni Diffidenti. A raccontarle, quelle storie – grazie a una app da scaricare sul proprio smartphone –, sono le voci di Lella Costa e Claudio Bisio nei panni di Mr. e Mrs. Parkinson. L’intento è dare voce direttamente ai protagonisti, per mostrare un modo diverso di affrontare la malattia, di vivere la quotidianità e di pensare al futuro. Scardinando stereotipi e pregiudizi. Inaugurata a Milano, e promossa dalla Confederazione Parkinson Italia, la mostra attraverserà l’Italia: sarà a Genova fino al primo novembre, inclusa tra le iniziative del Festival della Scienza. Poi, dal 6 al 15 dello stesso mese, sarà la volta di Trento.
La malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa che colpisce soprattutto la popolazione dai 60-65 anni in su, ma anche persone più giovani. Esistono infatti predisposizioni genetiche, cui negli ultimi anni si sta prestando sempre maggiore attenzione. “La patologia si manifesta con disturbi del movimento – spiega Laura Avanzino, docente di fisiologia e neurofisiologia all’università di Genova e ricercatrice presso l’Irccs Policlinico San Martino, che in questi giorni interviene al festival su questo argomento con Fabio Benfenati e Antonio Uccelli –. I sintomi possono variare: si va dalla presenza di tremore, alla rigidità, al rallentamento motorio, fino all’instabilità posturale e a disturbi del cammino. È da sottolineare, tuttavia, che i pazienti parkinsoniani presentano anche sintomi non motori che impattano notevolmente sulla qualità della loro vita. Mi riferisco, ad esempio, a problematiche di tipo emozionale o cognitivo, disturbi autonomici e altri disturbi della sfera non motoria”. Nel corso della malattia, infatti, possono insorgere anche stati di ansia o depressione, attacchi di panico, deficit cognitivo, ipotensione ortostatica, disturbi genitourinari, gastrointestinali e demenza.
Guarda l'intervista completa alla neurologa Laura Avanzino. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Avanzino spiega che oggi la terapia standard è quella farmacologica con levodopa che riesce a ricalibrare la trasmissione dopaminergica, alterata nella malattia di Parkinson. “A questa si associano però la terapia chirurgica, con la stimolazione cerebrale profonda, e negli ultimi anni viene dedicato più spazio anche agli approcci non farmacologici”. Che si basano, innanzitutto, sulla neuroriabilitazione per promuovere il riapprendimento dei gesti motori nei pazienti parkinsoniani.
“Nell’ambito delle terapie non farmacologiche, penso che le nuove tecnologie offrano grandi prospettive. Mi riferisco per esempio alla neuromodulazione che è una maniera non invasiva di eccitare, di modulare l’attività dei neuroni, delle cellule del sistema nervoso, potenziandone l’attività e favorendo meccanismi di apprendimento motorio anche in pazienti che a causa di una malattia neurodegenerativa potrebbero avere tali meccanismi non perfettamente funzionanti”. La neuromodulazione non invasiva, quindi, permette di amplificare la plasticità delle cellule del sistema nervoso centrale che sono fondamentali per l’apprendimento di gesti motori.
La docente entra poi più nel dettaglio di questa metodica: “Per la neuromodulazione non invasiva del tessuto cerebrale si utilizzano due tecniche differenti: la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva e la stimolazione elettrica transcranica. Nel primo caso, un campo magnetico induce una corrente elettrica nel tessuto cerebrale. Viene posizionata una sonda stimolante (coil) sullo scalpo in corrispondenza dell’area della corteccia cerebrale scelta come target. Nel secondo caso, invece, una corrente elettrica viene erogata sul tessuto cerebrale grazie all’applicazione di elettrodi stimolanti posizionati sullo scalpo. Le aree accessibili alla stimolazione sono tutte le aree della corteccia cerebrale. Nella malattia di Parkinson, per trattare i sintomi motori, le aree più frequentemente stimolate sono quelle della corteccia frontale. La neuromodulazione può essere impiegata anche per trattare i sintomi non motori (depressione e disturbi cognitivi) scegliendo come target l’area dorsolaterale prefrontale di sinistra”.
Dalla mostra "NonChiamatemiMorbo", la storia di Riccardo, raccontata da Claudio Bisio e lella Costa
Nei pazienti con malattia di Parkinson si è rivelata utile, inoltre, anche una corretta attività fisica: “Diversi studi sperimentali – sottolinea la docente – supportano l’importanza dell’attività fisica nelle malattie neurodegenerative in generale, dunque non solo nella malattia di Parkinson, ma anche per esempio nella malattia di Alzheimer. Nella malattia di Parkinson, in particolare, trattandosi di un disturbo caratterizzato in maniera importante da aspetti motori, un allenamento ‘cucito’ sui bisogni del paziente per riapprendere certi gesti motori assume particolare rilievo”. L’attività motoria, dunque, avrebbe un ruolo significativo nell’indurre plasticità nelle cellule del sistema nervoso e nel rallentare la degenerazione dei neuroni che sono coinvolti in questa patologia.
I disturbi neurologici sono oggi la principale fonte di disabilità a livello globale e tra questi, stando ai dati illustrati dal Global Burden of Disease, Injuries and Risk Factors Study 2015, la malattia di Parkinson è la patologia che ha registrato la crescita maggiore in termini di prevalenza, disabilità e mortalità. Si stima che il numero complessivo di persone malate di Parkinson sia più che raddoppiato a livello globale negli ultimi 20 anni: nel 1990 si contavano 2,5 milioni pazienti, contro i 6,1 del 2016 (di cui 2,9 milioni di donne, il 47,5%, e 3,2 milioni di uomini, il 52,5%). La cifra, tuttavia, potrebbe essere anche più elevata, dato che molte persone non vengono diagnosticate.
Quali le ragioni di questa crescita? “È una domanda di difficile risposta – argomenta Avanzino –, perché la malattia di Parkinson è multifattoriale. Sicuramente l’aumento dell’età nella popolazione è un fattore favorente, da cui deriva un incremento dell’incidenza delle malattie neurodegenerative, dato che gran parte dei pazienti hanno più di 60-65 anni. Ma vi sono sicuramente anche altre cause di tipo ambientale: si parla molto dell’influenza dell’epigenetica, dunque dell’influenza dell’ambiente sullo sviluppo di patologie. Certamente anche queste possono essere prese in considerazione e sono attualmente oggetto di studio per comprendere meglio l’andamento dell’incidenza della malattia”. Dunque, poiché il numero di casi di Parkinson aumenta in modo significativo con l’età e le persone oggi vivono più a lungo, la prevalenza della malattia è destinata ad aumentare anche in futuro. Il Global Burden of Disease Study 2015 stima che potrebbero esserci quasi 13 milioni di persone con Parkinson entro il 2040.