SCIENZA E RICERCA

La penisola antartica: un ecosistema in pericolo

A causa dei cambiamenti climatici, il delicato ecosistema della penisola antartica è in pericolo. A lanciare un appello alla mobilitazione generale è un articolo pubblicato su Nature che sottolinea la necessità di adottare con urgenza misure preventive prima che la biodiversità marina e terrestre della zona venga del tutto compromessa

A fine ottobre, la Commission for the Conservation of Antarctic Marine Living Resources (CCAMLR) ha tenuto una conferenza in cui sono state discusse diverse questioni, tra le quali l'istituzione di un'area marina protetta e l'introduzione di limitazioni alla pesca del merluzzo nero antartico, osservando invece un significativo miglioramento nella gestione della pesca al krill. Un risultato importante quest'ultimo, dato che "il krill ricopre un ruolo chiave negli ecosistemi antartici, essendo la principale fonte di alimentazione di pinguini, foche e cetacei misticeti. Ovviamente non è l'unico importante organismo che popola i mari, ne esistono anche altri come gli organismi zooplanctonici e fitoplanctonici, ma, viste le piccole dimensioni e l'abbondanza, la presenza del krill è determinante". A parlare è il professor Stefano Schiaparelli, docente di analisi e conservazione della biodiversità marina all'università di Genova. "Il krill" prosegue Schiaparelli "ha attraversato varie fasi in termini di abbondanza. Dapprima, quando la pesca si concentrava sulla caccia alle balene, la sua presenza è aumentata notevolmente. Addirittura negli anni Sessanta si formulò la Krill Surplus Hypothesis secondo cui sembrava che ve ne fossero milioni di tonnellate a disposizione, quasi a giustificarne l'ingente prelievo da parte dell'uomo".

Dagli anni Settanta si è però assistito a una drastica riduzione del krill, tant'è che l'attenzione delle istituzioni internazionali al problema ha creato la nascita di commissioni per lo studio di questa specie e sono state create aree apposite per valutarne le dinamiche di crescita e sviluppo. "È stato osservato che la popolazione del krill di un dato anno dipende da quanto è durato il ghiaccio marino l'anno precedente" spiega Schiaparelli. "Trovando infatti rifugio e cibo nella parte inferiore dei ghiacciai marini, il piccolo crostaceo lega gran parte del suo ciclo biologico alla presenza di ghiaccio. Così i cambiamenti climatici, uniti al problema della pesca intensiva, stanno causando una rapida diminuzione del krill. Se la temperatura media continuerà ad aumentare, però, si potrebbe assistere a una diminuzione anche di animali, quali l'acciuga antartica, che rappresentano un'altra fonte di nutrimento per predatori di grande dimensione e importanza ecologica fondamentale".

A differenza del resto dell'Antartide, la penisola non presenta più grandi zone incontaminate. Le navi inquinano l'oceano con combustibili, rumori e microplastiche; il che favorisce l'introduzione di specie invasive come cozze, alghe e stelle marine che rischiano di soppiantare organismi autoctoni. Di recente è stato infatti ritrovato nelle acque antartiche il mitilo cileno, una specie di cozza che in futuro potrebbe diventare stabile in questo ambiente. "Tuttavia" rassicura Schiaparelli "bisogna tenere presente che le condizioni ambientali antartiche sono davvero estreme e pochi organismi sono in grado di adattarvisi nel breve periodo. Finora la barriera climatica ha limitato il fenomeno, ma si tratta di un'eventualità che non si può affatto escludere".

Ad aumentare le possibilità che ciò avvenga è il turismo, in continua crescita. Attualmente sono valutati circa 60 mila visitatori l'anno, ma alcuni siti particolarmente famosi quali il porto di Neko e Port Lockroy ne contano 20 mila a stagione. "Quando così tanti visitatori accedono ogni anno a zone che dovrebbero essere mantenute integre, il rischio di contaminazione aumenta. Dall'altra parte, però, le persone in visita fungono da osservatori e contribuiscono al censimento di cetacei perché li fotografano e ne diffondono le immagini".

Intervista al professore Stefano Schiaparelli

Infine, ulteriore e ben noto fattore di rischio per l'habitat antartico sono gli effetti dei cambiamenti climatici. Se da un lato il surriscaldamento globale sta causando una sempre maggiore riduzione di ghiaccio, con i rischi delle conseguenze sopra esposte, dall'altra le modificazioni dell'ecosistema in questione si ripercuotono a loro volta sul sistema globale. Un primo effetto sarebbe rappresentato dall'innalzamento del livello dei mari: "L'Antartide rappresenta la riserva di acqua dolce del pianeta e la calotta antartica, che in alcuni punti è spessa anche 3,5 km, intrappola un'enorme quantità di acqua" illustra Schiaparelli. "Se la calotta antartica e quella della Groenlandia, le due zone del pianeta dove è immagazzinata la maggior quantità di acqua sotto forma di ghiaccio, dovessero fondersi del tutto come è già successo più volte in passato, si stima che i livelli marini salirebbero di oltre 60m. Chiaramente non si tratta di un fenomeno improvviso, però risulta evidente che, se il global warming dovesse peggiorare, prima o poi potrebbe accadere". Il secondo effetto che potrebbe verificarsi sarebbe la variazione della circolazione termoalina, ovvero quella dei cicli di masse d'acqua calde e fredde che transitano nei mari del pianeta mettendone in moto il motore climatico e redistribuendo il caldo e il freddo - la corrente del Golfo è una di queste.

"Il ciclo" afferma Schiaparelli "può essere drasticamente alterato da eventi climatici o da una accelerazione o diminuzione nella produzione delle tipologie di masse d'acqua. La circolazione di queste ultime intorno all'Antartide è molto complessa e ve ne sono di diverse tipologie - ipersaline, dense, acque calde che arrivano dall'esterno e lambiscono l'Antartide. Tutti questi meccanismi possono ridistribuire non solo il calore nel nostro pianeta, ma anche le masse di plancton". Ciò significa che alcune zone marine potrebbero diventare produttive, mentre altre cessare di esserlo; quindi alterazioni locali possono ripercuotersi a livello globale, sebbene i tempi siano lunghi e non sia possibile prevedere le dinamiche e le tempistiche di questi processi. "Alcuni studi mostrano come le calotte si siano formate e disciolte nel corso del tempo, costituendosi in circa 30 milioni di anni nelle strutture che oggi conosciamo. I vari cicli glaciali e interglaciali, quindi, hanno provocato più volte simili cambiamenti. La differenza sembrerebbe però risiedere nell'eccessiva velocità con cui stanno avvenendo queste variazioni".

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012