SCIENZA E RICERCA
Il riscaldamento globale mette a rischio il ciclo riproduttivo di molluschi e altri invertebrati
Le acque dell’Atlantico nord-occidentale, tra il Georges Bank e il Middle Atlantic Bight, non sono più le stesse. Negli ultimi 60 anni, l’areale di molte specie di molluschi e di altri invertebrati che vivono sui fondali marini si è ridotto del 10%, spostandosi verso la costa. La colpa, neanche a dirlo, è del cambiamento climatico che avrebbe modificato i tempi di riproduzione di queste specie, innescando una “migrazione nel verso sbagliato”. È quanto scrive un gruppo di ricercatori della Rutgers University su Nature Climate Change.
Come è noto, il riscaldamento globale spinge molte specie di animali e piante a spostarsi, a migrare verso areali più freschi: c’è chi si dirige verso nord, chi più in profondità (nei limiti delle possibilità e dei livelli di luce). E c’è chi sta già scalando le montagne. Tutti cercano di ristabilire il proprio optimum climatico e non soccombere al troppo caldo. Spesso molti cambiano la loro fenologia: la tempistica delle migrazioni o della riproduzione.
Ma la vita al tempo del climate change per i molluschi bentonici che vivono ancorati al fondo, come capesante, cozze e vongole, può essere molto complicata. Da adulti questi animali tendono a rimanere sul posto, alcuni anche a formare delle colonie, sono sedentari e restano ancorati al substrato. Ma nella loro fase larvale i bivalvi sono nuotatori deboli e fanno affidamento sulle correnti oceaniche per essere trasportati lontano.
Heidi Fuchs della Rutgers University, esperta di molluschi marini che da anni studia le specie della piattaforma continentale dell’Atlantico nord-occidentale, si è accorta subito che qualcosa stava cambiando: l’areale di molte specie comuni in quest’area marina si è ridotto in modo significativo negli ultimi decenni. E si è spostato verso l’interno: molte specie stavano scomparendo dall’area più esterna della piattaforma continentale. Cosa stava succedendo?
Per la Fuchs non c’erano dubbi: l’affare riguardava i modelli di dispersione delle larve. Così la Fuchs, insieme al suo team e all’oceanografo della Rutgers Robert Chant, ha raccolto ed esaminato i dati relativi a 50 specie di molluschi, mappandone gli areali e le tempistiche di riproduzione. Poi ha incrociato questi dati con i trend di temperatura delle acque e i modelli delle correnti marine. E quello che ne è uscito non sono certo buone notizie.
Dagli anni Sessanta ad oggi l’Atlantico nord-occidentale, tra il Georges Bank e il Middle Atlantic Bight, si è riscaldato tre volte più velocemente rispetto alla media globale: la temperatura dell’acqua è aumentata di 2°C in sei decenni. Di conseguenza, le specie sessili e poco mobili di molluschi hanno modificato la loro fenologia e hanno cominciato a rilasciare le loro larve con circa un mese di anticipo. Ma quello che poteva sembrare un adattamento vantaggioso per affrontare il cambiamento climatico, si è rivelato un vero e proprio disastro.
Fino ad oggi le 50 specie prese in esame si riproducevano alla fine della primavera e soprattutto in estate, quando i venti soffiano verso la piattaforma continentale e innescano un processo di risalita delle acque profonde (upwelling) che consente alle larve di rimanere lungo la piattaforma. Con l’aumento delle temperature però i molluschi hanno cominciato a riprodursi prima, in primavera, quando invece i venti scorrono lungo la costa e generano correnti di downwelling, verso il basso, che spingono le larve verso sud-ovest e in acque più basse, molto più calde di quelle ottimali.
Per questo le larve nate prematuramente vengono trasportate da correnti marine diverse, persino opposte: si trovano a seguire percorsi sbagliati. E vengono spinte in acque ancora più calde dove hanno meno probabilità di sopravvivere. Chi riesce a diventare adulto, resta “intrappolato” in un’area sfavorevole, innescando un ciclo di feedback negativo: in acque ancora più bollenti, i bivalvi si riproducono ancora prima e le larve vengono trascinate da correnti ancora più forti a sud-ovest e lungo la costa. È un cane che si morde la coda ed ecco perché tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, gli areali di queste specie si sono ridotti in media di circa il 10%. «È piuttosto preoccupante che così tante specie bentoniche che erano davvero abbondanti siano scomparse dalla piattaforma esterna» sottolinea Fuchs. E tra le specie il cui areale si è contratto maggiormente, dal 30% al 50%, schiacciandosi sotto costa, ci sono bivalvi che sono fondamentali per l’industria della pesca, come la vongola artica (Arctica islandica), le cozze blu (Mytilus edulis), e la vongola dell’Atlantico (Spisula solidissima).
A cadere in questa trappola mortale però non sono solo i bivalvi, ma anche stelle marine, gasteropodi come la Crepidula fornicata e la Tritia trivittata, e il verme americano (Glycera dibranchiata), un polichete utilizzato di solito come esca viva.
I cicli riproduttivi degli animali e delle piante si sono co-evoluti per millenni, e sono stati spesso modellati da variabili ambientali come piogge, temperature idonei, venti e correnti marine. Ora però lungo la piattaforma americana questa perfetta sincronia sembra essersi spezzata. Che sia così anche altrove? Non è dato saperlo. Secondo la Fuchs questi risultati non possono essere generalizzati: ogni area e ogni scenario è a sé, ma quello americano non promette nulla di buono. «Per quanto riguarda le specie bentoniche dell’Atlantico nord-occidentale, possiamo sperare che alcune spostino ancora la loro deposizione delle uova in un momento in cui le correnti sono più favorevoli o che riescano a tollerare l’acqua più calda». Ma la cosa sembra alquanto improbabile in tempi brevi e utili ad impedire addirittura un’estinzione. Ed è probabile che i biologi dovranno pensare a trasferire queste specie in pericolo in ambienti più favorevoli: una migrazione assistita.